martedì 23 dicembre 2008
Rapporto Caritas sulla povertà e sull'esclusione sociale in Italia
Lo scorso 17 ottobre, come si fa da ormai 16 anni, si è celebrata la Giornata Mondiale della Povertà.
L'origine di questa ricorrenza risale a qualche anno prima, al 1987. In quell'anno, migliaia di persone si riunirono in un locale parigino – la città della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo - per ricordare al mondo le persone che soffrono la fame e che sono in condizioni di povertà.
Qualche anno dopo, nel dicembre del 1992, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, proclamò il 17 ottobre come la la ricorrenza dedicata alla Giornata Mondiale di lotta alla povertà.
E' importante sottolineare che l'organismo promotore sia l'ONU, perché solo con una visione globale, planetaria, si può comprendere il fenomeno della povertà e della sua estensione.
Pensare globalmente ed agire localmente, si è detto spesso in passato; questa ricorrenza, se non vuole rischiare di essere la solita celebrazione un po' retorica, va concepita non solo come la somma delle pur lodevoli azioni tese al contrasto delle situazioni che emergono come le più gravi e problematiche ma come l'occasione preziosa per operare un serio ripensamento della distribuzione delle risorse, anche in relazione alla considerevole diminuzione dei flussi di donazioni che provengono dal settore privato. (1)
In occasione della giornata mondiale della povertà, è stato presentato dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Zancan anche il nuovo Rapporto sulla povertà e l'esclusione sociale in Italia.
Si tratta di un appuntamento ormai ricorrente e riguarda uno dei pochi osservatori privilegiati nel nostro paese sulla distribuzione delle risorse di assistenza per le fasce più a rischio della popolazione italiana.
Le cifre sono impressionanti e testimoniano una persistenza del fenomeno della povertà nel nostro paese e il sostanziale fallimento delle politiche di intervento assistenziale. Secondo questo nuovo Rapporto, è da considerarsi povero il 13% della popolazione italiana (7,5 milioni di persone), dovendo sopravvivere con meno della metà del reddito medio italiano, vale a dire con meno di 500-600 euro al mese. Ma ci sono almeno altrettante persone che sopravvivono con poco di più e che superano la soglia di povertà di una cifra compresa tra 10 e 50 euro al mese. Quindici milioni in tutto. E l’Italia, ci dice questo Rapporto, è diventato un paese dove le disuguaglianze si approfondiscono progressivamente e dove la «mobilità sociale» non esiste.
A tal punto che è il cosiddetto working poor ad essere diventato una realtà nel nostro paese; in una grossa ricerca commissionata dalla CGIL, e che ha coinvolto circa 100 mila lavoratori, oltre il 40% degli intervistati è sulla soglia della “povertà relativa” , soglia che l'ISTAT posiziona intorno ad un reddito disponibile di 1200 euro per un nucleo familiare di tre persone.
Le fasce di popolazione a maggior rischio sono oggi le persone non autosufficienti e le famiglie con più figli.
Avere più figli, in Italia, espone ad un maggior rischio di povertà, visto che nel nostro Paese è da considerarsi ufficialmente povero circa il 30% delle famiglie con 3 o più figli. La metà delle famiglie che si trova in questa situazione, peraltro, è concentrata al Sud. Se pensiamo alle scarse opportunità offerte a questi bambini e ragazzi, si vedrà che la situazione rischia di diventare drammatica. (2)
Operando un semplice raffronto con altri Stati europei, si vede che altrove accade esattamente il contrario, dato che la mano pubblica provvede alle famiglie numerose: più figli si hanno, minore è il tasso di povertà.
La situazione degli anziani non autosufficienti è più difficile soprattutto al Nord. Secondo gli ultimi dati disponibili, dal 2005 al 2006 la percentuale di poveri con 65 anni e più sul totale dei residenti (povertà cosiddetta relativa) è passata da un valore di 5,8 a 8,2.
Perché non si riesce a incidere su questi fenomeni, nonostante la conoscenza dei dati e degli studi sull'argomento? Secondo questo rapporto, ciò è dovuto a due cause principali, oltre all'insipienza degli interventi: la scarsità delle risorse e il loro cattivo utilizzo.
Presa nel suo complesso, la spesa per la protezione sociale in Italia è sotto la media Ue sia in termini di incidenza sul PIL ,sia in termini di spesa pro capite.
Nel complesso dei Paesi Europei, prendendo a riferimento l'Europa a 15, l'Italia è il paese europeo in cui i trasferimenti di risorse hanno il minor impatto nel ridurre il fenomeno della povertà, mentre altri paesi sono in grado di abbatterla della metà.
Poiché i trasferimenti monetari costituiscono la voce principale di spesa, il Rapporto suggerisce di percorrere una strada alternativa a quella praticata finora. Invece di affidare ai trasferimenti monetari il compito di intervenire sulle situazioni di bisogno, occorrerebbe invece aumentare le forme di aiuto attraverso i servizi, oltre che a decentrare la spesa sociale.(3)
Un elemento di particolare interesse del Rapporto che stiamo qui presentando sinteticamente, riguarda l'uso di indicatori per il confronto sulle diverse dimensioni della povertà e sulla comparazione operata tra diverse regioni. (4)
L'analisi comparativa ha mostrato con sufficiente precisione la conferma del divario tra Nord e Sud, pur in presenza di una certa eterogeneità all'interno delle diverse aree. In Sicilia, ad es., ha inciso favorevolmente la spesa per assistenza domiciliare, mentre in Sardegna lo sviluppo dei servizi sociali ha posizionato la Regione in alto nella graduatoria.
Nel caso della povertà infantile, troviamo la consueta polarizzazione Nord-Sud, con lo svantaggio maggiore del Sud rispetto a tutti gli indicatori, e in particolare rispetto alla disoccupazione femminile di lunga durata, alla condizione abitativa e alla mortalità infantile. Complessivamente, solo il Lazio ha avuto significativi miglioramenti nell'affrontare le situazioni di maggior disagio.
Le politiche di lotta al rischio di esclusione e le misure anti-povertà non sono un ambito di esclusiva pertinenza del governo centrale e per questo si è provveduto ad un monitoraggio sulla pianificazione sociale decentrata. Le strategie messe in atto dai sistemi amministrativi locali, relativamente a questo aspetto così in sofferenza del nostro welfare, vedono in prospettiva l'integrazione tra sistemi locali e una diminuzione di trasferimenti alla persona.
Tuttavia, ci sono territori in cui resta fuori da questa cornice di programmazione una discreta parte dei finanziamenti finalizzati alla gestione di azioni di welfare ed altri invece in cui il piano riveste una effettiva centralità e capacità di catalizzazione delle dotazioni finalizzate alle politiche sociali.
Le tipologie di servizio che più immediatamente possono riferirsi alla lotta all’esclusione possono identificarsi con i sussidi economici e con gli interventi volti a contrastare le emergenze sociali più acute, entrambi presenti in più di sei piani su dieci. (5)
Dalla varietà delle situazioni e delle strategie di intervento emerge la necessità di rivedere il nostro sistema di Welfare anche relativamente a questo settore, mentre si è sempre privilegiato, e più volte si è intervenuti, sul sistema previdenziale.
Se a questi dati si aggiunge la radicale trasformazione dei bisogni sociali negli ultimi decenni relativamente alla composizione demografica della popolazione, al suo invecchiamento progressivo, alle politiche di riduzione dei deficit pubblici anche con i tagli draconiani agli interventi, si vede quanto sia necessario immaginare un nuovo sistema di protezione sociale per le persone più in difficoltà e quanto sia indispensabile un riorientamento generale nell'acquisizione e nella distribuzione delle risorse.
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NOTE
(1)Qualche tempo fa il New York Times ha riportato la notizia, apparsa sul sito di Givin Usa Foundation, che riportava alcune stime su una drastica contrazione delle donazioni da parte dei privati. V. http://www.givingusa.org/gusa/mission.cfm.
Il 2010, su decisione del Consiglio dell'Unione Europea, sarà l'anno della lotta alla povertà e all'esclusione sociale, con l'obiettivo di riconoscere i diritti e la capacità delle persone escluse di svolgere un ruolo attivo nella società, di ribadire la responsabilità di tutti gli attori sociali nella lotta contro la povertà, di promuovere la coesione sociale e diffondere le buone pratiche in materia di inclusione.
(2)Vedi il nostro intervento sul n° 42 di Lavoro e Post Mercato del 16/7/08, “La condizione dei minori in Italia – Pubblicato il 4° rapporto del gruppo CRC.: http://www.lavoropostmercato.org/rivista.php?arg=3&art=383
(3)Per servizi si possono intendere forme strutturate di aiuto che vanno dagli interventi domiciliari a interventi intermedi o territoriali, come i centri diurni o i servizi educativi, a interventi residenziali, come le case famiglia, le residenze per persone non autosufficienti ecc. Per un esame più dettagliato delle proposte concrete, invitiamo a leggere direttamente il Rapporto, soprattutto in relazione alla possibilità di riallocare le risorse senza per questo aumentare la spesa pubblica.
(4)Questo confronto è stato reso possibile dall'uso degli indicatori elaborato dal Consiglio Europeo di Laeken-Bruxelles nel dicembre 2001 e poi diventati il punto di riferimento nell'analisi e nelle ricerche sull'esclusione sociale. Sono 18 indicatori statistici, suddivisi in primari e secondari, e prendono in esame, per citarne alcuni, i redditi disponibili dopo i trasferimenti pubblici, la loro distribuzione, il tasso di disoccupazione, la speranza di vita alla nascita, l'auto percezione dello stato di salute, ecc. Le definizioni esatte di questi 18 indicatori sono riprese in allegato al rapporto del Comitato della protezione sociale: http://europa.eu.int/comm/employment_social /soc-prot/soc-incl/indicator_fr.htm. Due "statistiche in breve" (8/2003 et 9/2003) recentemente publicate da Eurostat, l’ufficio statistico dell’UE.
(5)Per quanto concerne i trasferimenti monetari, il primato di una maggiore diffusione è detenuto dalle zone del Veneto (82,4%), dell’Emilia Romagna (80,8%) e della Liguria (77,8%). Superiore al dato medio anche la situazione degli ambiti lombardi (72,7%), abruzzesi (72%), e toscani (71,4%). Tra i dati disponibili per le aree meridionali, si può cogliere la netta diversificazione tra il dato pugliese, in linea con la media nazionale, e quello lucano, che fa registrare la percentuale più bassa (16,7%).
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