Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.
Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.
Ripenso a quella lettera a Scholem, così giusta e dura nei toni, quando l’ipotesi comunista si ripresenta nelle voci autorevoli che compongono il libro appena pubblicato da DeriveApprodi, L’idea di comunismo (maggio 2011, pp. 256, euro 18,00). Penso soprattutto a Badiou (il cui contributo ha visto la luce anche in un apposito volumetto di Cronopio dal titolo L’ipotesi comunista) e a Negri: penso all’Idea comunista secondo Badiou, quale «forzatura» dell’impossibile in direzione del possibile, forzatura che opera come una «sottrazione» del potere statuale. Penso alle parole di Negri: essere comunisti significa oggi come ieri «essere contro lo Stato», resistere al rapporto di potere capitalistico in nome di un possibile che non si riduce alla configurazione statuale («i soggetti si propongono sempre come elementi di resistenza singolare e come momenti di costruzione di un’altra forma del vivere comune»). Negri lega poi questa resistenza al suo concetto di «moltitudine», e questo a quello marxiano di classe: le singolarità compongono la moltitudine, le singolarità non soltanto soggiacciono ma resistono al capitale, «la moltitudine è concetto di classe». Se c’è una possibilità, è anche qui nel «rapporto di forza che si esprime fra il padrone e il proletario», cioè nella lotta di classe. Marx diceva: decisiva è la «forza» (Gewalt).
Dunque: il comunismo come possibilità che si dà oltre lo Stato; come possibilità contenuta in quella forza (o violenza, poiché le nostre parole si riuniscono nel tedesco Gewalt) che scontrandosi con lo Stato riesce a resistergli, cioè a sottrargli potere; forza che appartiene alla classe, violenza di cui solo la classe è capace. Questo è il punto, ancora oggi; e a chi crede che ragionare in termini di classe sia davvero poco à la page, risponderà il sillogismo di Marchionne: poiché le classi non esistono, ubbidite al padrone. Si tratta dunque, ancora una volta, di quel grado estremo nel quale la dinamica potere-resistenza raggiunge l’antinomia, grado decisivo di tensione e resistenza che Marx ha espresso con la formula: «catene radicali».
Vorrei allora tornare a Benjamin, riprendendo e sviluppando alcuni temi toccati in un mio libretto intitolato appunto Classe (Bollati Boringhieri 2009). Nel 1936, Benjamin compone la cosiddetta zweite Fassung del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si tratta della stesura più completa e importante del saggio. Ora, questa versione contiene com’è noto una lunga nota sul concetto di classe, nota assai apprezzata da Adorno nella famosa lettera a Benjamin del 18 marzo 1936, che per il resto era invece fortemente critica. La nota si apre con queste parole: «La coscienza di classe proletaria, che è la più chiarita, tra l’altro modifica profondamente la struttura della massa proletaria». Questo nel 1936, quando la massa proletaria tedesca che tanto piaceva agli apparati di partito era caduta nelle braccia del nazismo, quando il fascismo era ormai penetrato negli ambienti operai in profondità, e – come scrisse Wilhelm Reich – da due parti: attraverso il Lumpenproletariat («una espressione che fa rizzare i capelli») e la sua corruzione materiale, e attraverso l’«aristocrazia operaia» e la sua duplice corruzione, materiale e ideologica.
Proprio in queste condizioni, cioè quando la stolida fiducia nella «base di massa» aveva dato i suoi frutti, Benjamin pensava alla coscienza di classe come modificazione della struttura di questa massa. Che tipo di modificazione? Un allentamento, un rilassamento, una Aufloc-kerung, si legge nelle righe successive. Di cosa? Delle pressioni, appunto, che producono la pericolosa massa piccolo-borghese. Se esiste una coscienza di classe proletaria, sarà anche e necessariamente un allentamento capace di impedire la trasformazione di quella massa di operai in una folla pericolosa, nella folla studiata dai maestri della psicologia sociale di fine Ottocento: «Le Bon e gli altri». Proprio qui, dove ci aspetteremmo almeno un riferimento all’amplissima letteratura di stampo marxista, Benjamin ricorre ad autori ben diversi e persino reazionari. Cita Le Bon. Ma «citare» significa per lui salvare qualcosa strappandolo al contesto originario: la foule dangereuse, la folla che per Le Bon segue il suo capo in stato ipnotico, viene così strappata alla sua condizione di modello ideale, viene storicizzata e riconosciuta con precisione nella massa piccolo-borghese. Perché la piccola borghesia non è neanche una classe (ist keine Klasse) ma soltanto una folla. È la massa compatta (kompakte Masse) del totalitarismo, compressa dalle paure, dalle spinte degli antagonismi sociali, che non agisce ma è solo reattiva, e in cui prevale l’odio razzista, l’entusiasmo sonnambolico per la guerra. «In questa massa, in effetti, è determinante l’istinto gregario». Il suo modello è stato plasmato dal capitale: un semplice aggregato di individui che non hanno nulla in comune se non gli interessi privati. Sono i clienti, riuniti casualmente nel mercato.
E se il capitale è appunto interessato al controllo di questa massa eterogenea di semplici consumatori, lo Stato esegue ora il suo compito storico: rende le adunate perenni e obbligatorie offrendo agli individui un modo di venire a capo della propria situazione, di farsi una ragione del loro assembramento casuale in termini di razza, sangue, suolo; offrendo a questa folla gregaria e ipnotizzata una guida sicura, cioè un politico-attore, un divo-ammaliatore. La «prestazione» (Leistung) specifica di questo capo sarà infatti saper stare di fronte alla macchina da presa.
La coscienza di classe è invece attiva: opera l’allentamento delle pressioni e lo fa, per Benjamin, attraverso la solidarietà (Solidarität). Ora anche questa parola, «solidarietà» (la più usata), acquista qui un senso del tutto nuovo. Perde il suo significato militaresco di formazione compatta, si allontana dal dovere e dal debito (essere in solido), fa anch’essa la prova del rilassamento (abbandono delle paure, solidarietà del piacere, edonismo rivoluzionario: sono i temi che nel libro avevo cercato di sviluppare attraverso il marxismo epicureo di Jean Fallot). Questa classe solidale non può essere mai ipostatizzata, mai riconosciuta in alcun «soggetto» determinato: non è altro che dissoluzione costante delle tensioni. È il contro-movimento che resiste alla formazione della folla piccolo-borghese (compressa tra paure e speranze) in seno a qualsiasi formazione sociale. E se c’è un capo rivoluzionario, se qualcuno indica la strada, è colui che non si lascia mai ammirare. La sua «prestazione» sarà: sapersi immergere sempre di nuovo, scomparire, solidale, nelle pieghe della massa, diventare «uno dei centomila». Facciamo nostra questa prestazione: allentiamoci.
Auflockerung è qui il termine chiave. Anche se Adorno l’aveva curiosamente trascurato. Nella lettera del 18 marzo 1936, infatti, scriveva: «Non posso concludere senza dirle che le poche frasi sulla disintegrazione (Desintegration) del proletariato come “massa” (‘Masse’) attraverso la rivoluzione rientrano per me tra le più profonde e potenti, sul piano della teoria politica, da quando ho letto Stato e rivoluzione». Ora, Benjamin non aveva mai parlato di disintegrazione, ma di una trasformazione della struttura sociale. E non aveva certo scelto a caso la parola: Auflockerung.
Come chiarirla? A partire da un’ipotesi per così dire filologica. Direi che Benjamin riprende qui, nel saggio sull’arte di massa, un terminus technicus della sua filosofia, e in particolare della sua meditazione estetica; direi che egli riprende qui, dove «l’estetica diventa politica», il concetto chiave di un saggio giovanile, dedicato a Due poesie di Friedrich Hölderlin. Si trattava, in quelle pagine del 1914-15, di determinare il compito dell’esegesi. L’esegeta, diceva Benjamin, deve rivolgersi alla poesia (Gedicht) facendo emergere quel dettato (Gedichtete) che ha guidato il poeta e a cui il poeta è riuscito a dare sì un’espressione in atto (in quel testo che abbiamo sotto gli occhi), e tuttavia una determinazione limitata. Qualcosa del dettato è rimasto ancora in potenza, ancora esprimibile. Deve allora occuparsene il buon esegeta. Come può farlo? Non è forse questo dettato qualcosa di troppo vago, come un’idea prima e ormai inattingibile, il non-so-che di un’ispirazione di fatto indeterminabile? Al contrario, risponde Benjamin, il dettato si differenzia dall’opera solo «per la sua maggiore determinabilità: non per una mancanza quantitativa, ma per l’esistenza potenziale delle determinazioni in atto nella poesia, e di altre».
L’esegesi consisterà allora in un «allentamento» (Auflockerung) dei legami interni, funzionali, che governano l’opera poetica e le conferiscono la sua forma attuale. L’esegesi – diremo – è dunque una modificazione profonda della struttura dell’opera: è quell’atto che forza il dato testuale, flette le sue giunture, spezza i vincoli prosodici e fa apparire, nell’opera stessa, uno spettro di possibilità ancora aperte. L’esegesi è lo sviluppo e il dispiegamento dei possibili che un testo poetico serba in sé, ancora inespressi. Per questo ogni autentica poesia, potremmo dire ancora, esige l’operazione esegetica.
Come si sa, Benjamin scrisse negli anni del saggio sull’Opera d’arte quello sul teatro epico di Brecht, in una prima versione nel 1931 e poi in quella definitiva nel 1939. Questo teatro, diceva il testo del 1931, si distingue dagli altri poiché non richiede che il pubblico lo segua come una «massa ipnotizzata». E la stesura del ’39 precisava: il pubblico del teatro epico è un pubblico rilassato (entspanntes Publikum), che segue l’azione con distacco, un pubblico critico e allentato (gelockert). Il teatro brechtiano rappresentava per Benjamin, dunque, una tecnica di allentamento. E nella forza che distrugge la «quarta parete», nella cancellazione della differenza ovvero nella piena solidarietà tra attore e pubblico – come anche nell’ammirazione di Benjamin per il cinema privo di «attori» dell’avanguardia russa – riconosciamo il modello della politica o dell’esigenza comunista.
La classe rivoluzionaria è un rilassamento del pubblico. Il comunismo è un’azione di allentamento: scioglie tutte le catene sciogliendo quei legami aberranti (i miti biopolitici del territorio, della razza, della patria o del lavoro) che lo Stato dispone per organizzare l’ammasso casuale dei consumatori e contenerne le spinte dissolutorie. Sciogliendo questi legami (e la massa nella classe), il comunismo dispiega la potenza del nostro essere insieme (la nostra piena determinabilità). Dove c’è il divo-attore, dove si dà un maestro della posa (e sia anche una posa di sinistra), ci sono solo folla e fascismo. Il comunismo non riconosce nessun divo.
FONTE: Alfabeta2
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