Capita sempre più spesso, nelle discussioni più disparate, o nei talk show più corrivi, di sentire risuonare la frase “non ci sono più gli insegnanti di una volta”, immancabilmente seguita (o preceduta, poco importa) da quella che afferma: “ ai miei tempi si, che si studiava sodo”.
Come accade frequentemente quando si affrontano di petto i luoghi comuni, una breve analisi critica è in grado di smontare con facilità gli stereotipi.
E anche in questo caso, questa fraseologia un po’ stantia mostra in filigrana quel deposito di conoscenze irriflesse e di pregiudizi infondati che circondano molti fenomeni. Così accade a proposito della perdita di autorità da parte degli insegnanti.
Eppure, mai come in questi anni, si invoca e si chiede più formazione, più educazione, più diffusione della conoscenza. In nome della competizione economica o in riferimento all’aumento e alla specializzazione delle conoscenze necessarie per vivere nelle società complesse, da molte parti si percepisce un crescente deficit di istruzioni, di competenze, di abilità, quali cause di esclusione sociale.
Con grande affanno, ma dedicandovi risorse finanziarie e intellettuali sempre più risicate, tutti però concordano sulla centralità della formazione e dell’educazione per l’accesso da posizioni di forza al “mercato del lavoro” e per evitare il rischio di marginalità economica in relazione alla competizione tra sistemi paese. (1)
Inoltre, si percepisce che tutte le agenzie educative, in primis scuola e sistema universitario, non sono più in grado di far fronte a questo aumento della domanda di formazione e di educazione e si ricorre a quella proliferazione di corsi, master, alte specializzazioni, stages, corsi di perfezionamento ecc. che inseguono o determinano una richiesta di formazione professionalizzata e tendenzialmente già impiegabile su un mercato del lavoro mutevole e complesso. Fenomeno tipico di questi ultimi anni è anche la richiesta di “supplenza educativa” della scuola o di vero e proprio maternage su questioni che prima erano attribuite alla competenza esclusiva delle famiglie. Così vediamo proliferare le educazioni alla salute, le educazioni alla legalità, le educazioni stradali, tutte le educazioni variamente assortite che la fertile fantasia ministeriale o l’emergenza di turno suggeriscono ai Ministri della Pubblica Istruzione.
Si intuisce, con questo sistema basato sull’accumulazione delle educazioni, che un meccanismo di trasmissione di vecchie e nuove conoscenze si è interrotto, ma la progettazione degli interventi o addirittura la modifica dei curricoli rimangono sempre di là da venire.
Da ultimo, al di la dell’inadeguatezza delle istituzioni educative, si lamenta una generica manchevolezza degli insegnanti a trasmettere e a costruire un nucleo solido di conoscenze adeguato alla richieste della società, a causa di una altrettanto generica perdita d’autorità che sarebbe alla base dei molti mali della scuola e del sistema della formazione. Senza considerare la vaghezza e la parzialità di queste accuse (dove stanno infatti, in questo generale sfacelo, le istituzioni e le famiglie?), dove starebbe il fondamento di questa presunta incapacità degli insegnanti a occuparsi della funzione più preziosa di ogni sistema sociale, la trasmissione delle conoscenze?
A chi attribuire, dunque, quella che viene da molti definita la mancanza di autorevolezza degli insegnanti? All’avvento della scolarizzazione di massa? Ai movimenti antiautoritari del ’68? Alle varie riforme della scuola succedutesi nel tempo? All’abolizione del voto di condotta per la promozione?Alla perdita di considerazione sociale del ruolo degli insegnanti?
E se tutto questo non fosse che l’effetto e non la causa di una più generale perdita del principio d’autorità, riguardante in special modo le società occidentali?
Ricordiamo tutti che il principio d’autorità è un potente principio ordinatore, un architrave sul quale edificare le istituzioni, gli ordinamenti legislativi, l’ordine sociale, la conoscenza, l’educazione, la trasmissione del sapere e persino l’attribuzione dei ruoli rispetto al genere. (2)Senza voler rifare a ritroso la storia delle idee a proposito del concetto d’autorità, basti ricordare qui che l’autorità, come concetto, va distinto sia dal potere politico che da quello militare. (3)
Essa ha a che fare con una dimensione quasi sacrale, religiosa, fondativa di ogni potere costituito. Anche in questo caso, non dobbiamo ripercorrere le svolte teoriche e politiche che si sono prodotte nella nostra cultura rispetto alle metamorfosi del principio d’autorità.Ricordiamo qui, per nostra comodità, che relativamente alla concezione del potere dello stato, solo con Machiavelli prima, e con Hobbes e Locke poi, si è affermata una concezione tipicamente moderna dell’autorità, svincolata dai legami religiosi e sacrali. (4)
L’opera di “laicizzazione” dello Stato è stata poi proseguita da Rousseau che, nella sua critica dell’assolutismo, fondava la legittimità dello Stato e delle istituzioni nella volontà popolare. E’ a partire da queste idee fondative, da queste nuove concezioni del principio d’autorità, che si è inaugurata l’età moderna.Cosa c’entra, si chiederanno i lettori, la crisi dell’autorevolezza degli insegnanti e delle istituzioni educative con la teoria dello Stato? In casi come questo ci si confronta con le idee fondanti della nostra civiltà, dove i fondamenti teorici che sono alla base della nostra fisionomia culturale in ambito filosofico, scientifico e letterario, interagiscono fino a delineare una figura precisa, un’autentica dimensione di antropologia culturale.
Quel che qui si intende sostenere è che la crisi del principio di autorità degli insegnanti, dei maestri, dei precettori, dei tutori (e anche dei mâitres a penser ) si radica nel più generale contesto di trasformazione del principio di autorità che ha coinvolto le moderne società occidentali. Processi di questo genere, tuttavia, sono di lunga durata, per cui risulta difficile coglierne le dimensioni e gli effetti. Se ci limitiamo a verificare i sintomi di crisi in settori prepolitici quali la pedagogia o l’istruzione, si vedrà che l’età moderna, nei suoi passaggi storici principali, si è configurata spesso come critica del principio d’autorità, definendosi come moderna proprio in opposizione a princìpi ritenuti antiquati e autoritari.Solo per citarne alcuni, la Riforma luterana, la rivoluzione scientifica di Galilei e Bacone, la nascita degli Stati Nazione e della supremazia della legge, le rivoluzioni liberali e giacobine, le teorie darwiniane, freudiane e marxiane, ecc. sono processi storici, religiosi e teorici che nella loro diversità sono unificati dalla critica del principio d’autorità: tutto deve essere sottoposto al vaglio della critica, della ragione e della sperimentazione. (5)
Allo stesso modo, anche la morale è sottoposta al vaglio della ragione e l’individuazione di ciò che è giusto e ingiusto si misura con i procedimenti razionali. Similmente, anche la configurazione dei ruoli e delle posizioni all’interno dei gruppi sociali si modifica in relazione a queste dinamiche di razionalizzazione e di secolarizzazione. (6)
Il passaggio successivo, che è importante per il discorso che stiamo conducendo, è che i processi di critica al potere autoritario, nelle sue più ampie accezioni – politico, religioso, culturale - , portano ad una trasformazione dei ruoli attribuiti a tutti coloro che per la loro attività si fondano sull’autorità o sull’autorevolezza, come nel caso degli insegnanti.L’autorità funzionale degli insegnanti, per essere veramente efficace, ha bisogno di una asimmetria e una superiorità riconosciute e mantenute come tali, sia in ambito strettamente conoscitivo che in quello più largamente educativo. I ruoli che si stabiliscono nel set educativo non possono essere sottoposti a negoziato, pena il fallimento o l’inefficienza del processo educativo. Ebbene, questo è esattamente ciò che accade. La rottura di questo schema deriva dal lungo processo di critica cui è stato sottoposta ogni forma di potere, ivi compreso il sistema educativo.
Sarebbe abbastanza fuorviante, quindi, riproporre princìpi di autorità ormai consegnati al passato, ampiamente screditati, fuori dalla sensibilità contemporanea, che li considererebbe antistorici; il compito che occorrerà assegnarsi per il futuro è piuttosto quello di ricostituire un’autorevolezza senza autorità e senza autoritarismi. Compito certo non facile.
Esso richiede, per funzionare, che coloro che si confrontano nel campo dell’apprendimento e della trasmissione del sapere, si riconoscano a vicenda e che rispettino i propri ruoli e le rispettive sfere di autonomia. Il riconoscimento reciproco, basato su un piano di uguaglianza sostanziale, oltre che formale, comporta uno scambio negoziale aperto e trasparente. Nulla si toglierebbe, in questo modello, alla superiorità conoscitiva e di esperienza degli insegnanti; allo stesso modo, nulla si toglierebbe, in termini di identità e di autonomia conoscitiva agli studenti, con un modello educativo basato sul rispetto dei ruoli. Un buon insegnante riconosce per primo i limiti delle conoscenze trasmesse, poiché ne conosce il senso complessivo di avventura intellettuale sempre aperta e sottoposta a continua revisione; un docente attento e consapevole sa anche che la scuola non è l’unica agenzia educativa, per quanto conservi ancora una sua centralità. Come dice Seneca, “gli uomini, mentre insegnano, imparano”.
La differenza, davvero rilevante e significativa, rispetto al passato, è che questa relazione aperta e problematica, è sottoposta a revisione di continuo, non è mai data una volta per tutte e va conquistata e costruita ogni giorno. Quanto agli alunni, dovrebbero sapere che la “fatica” della conoscenza e del rispetto delle prerogative degli adulti, saranno ripagate dalla comprensione del proprio ruolo sociale e della propria identità individuale, oltre che da un mondo meno ostile e incomprensibile.
Anche le ultime prese di posizione ministeriali rispetto al voto in condotta, manifestazione materiale del ripristino dell’autorità, non fanno che sottolineare questa distorsione prospettica, dettata più dalla paura e dalla nostalgia che non da una vera comprensione del problema.
Come dice giustamente un grande scrittore francese, Daniel Pennac, “il voto di condotta non è espressione della vera autorità, che nella scuola può essere solo di ordine intellettuale ed esemplare. Viviamo in un periodo segnato da una paura costitutiva cui vengono date risposte autoritarie, formali, insufficienti e chi le propone ha più paura di tutti.”A esemplificare queste parole di Pennac, il libro "La classe", di imminente pubblicazione presso Einaudi, edizione italiana di "Entre les murs", caso letterario che in Francia, grazie ad un passaparola sotterraneo, ha avuto un inaspettato successo, conquistando anche il premio France Culture-Télérama. Il tragicomico resoconto delle vicende dell'autore-prof alle prese con i suoi alunni tra le mura del liceo Mozart ha fatto molto discutere alla sua uscita nel 2006 e da quelle pagine è nato anche l’omonimo film diretto da Laurent Cantet, vincitore quest'anno della Palma d’oro e che vedremo nelle nostre sale a ottobre. Le singole giornate dell'anno scolastico, passano fra scontri e scambi surreali, alle prese con i tentativi degli alunni di districarsi tra gli ausiliari, futuri anteriori e pronomi, e quelli dei professori di trasmettere qualcosa, con un minimo di autorevolezza. Entrambi fallimentari, in un crescendo di frustrazione e situazioni tragiche, che la ripetitività rende comiche, in una scuola descritta con distacco e con l’intento di non emettere giudizi troppo frettolosi.
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NOTE
(1) Si tratta, com’è evidente, di una posizione non neutra, ideologicamente orientata, intorno al rapporto tra conoscenza e lavoro, ma è una tematica che richiederebbe uno studio apposito e che non possiamo affrontare qui.
(2) Con il termine autorità, dal latino auctoritas, derivato a sua volta da augeo, accrescere, si intende quell'insieme di attributi propri di una istituzione, di una singola persona o di gruppi rispetto ai quali i singoli individui si assoggettano in modo volontario (o in modo coercitivo, con l’autoritarismo) per raggiungere finalità eticamente ritenute superiori o degne di particolare attenzione. Come spesso accade è a Platone che va fatta risalire la prima problematizzazione del termine autorità: per il filosofo greco, la vera autorità derivava dalla conoscenza e quindi il fondamento del potere doveva essere in mano ai filosofi. Successivamente, mitiga questa concezione con il richiamo alla necessità di obbedire alle leggi. Aristotele, invece, sostiene che è la natura a stabilire chi è il governante o il governato, tentativo di pari importanza a quello platonico. Per lo stagirita, la natura stabilisce la differenza tra giovani e vecchi; i primi sono destinati ad essere governati e i secondi a governare.Cfr. Platone, La Repubblica, Mondadori, Milano,1990 e Id. Leggi e Aristotele, Politica, Laterza,Roma-Bari,1983. Sulla funzione svolta dall’autorità nelle società complesse, Vedi N.LUHMANN, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano,1979.
(3) La prima, che i romani chiamavano potestas, si riferiva al potere dei magistrati di emanare editti e di farli rispettare; il potere militare, invece, pur provenendo da magistrati, ha caratteristiche più spiccatamente militari.C’è un secondo significato, nella parola auctoritas, “innalzare, elevare”, che specifica la peculiarità della concezione dell’autorità dell’età classica romana: il nucleo centrale di questa concezione è la sacralità della fondazione, nel senso del vincolo che essa rappresenta per tutte le generazioni future. Così i senatores, le autorità del tempo, ricevono l’autorità per tradizione e trasmissione da coloro che avevano posto le fondamenta. Cfr. su questo punto H. ARENDT, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991. Sulla sacralità dell’autorità, cfr. il fondamentale lavoro di R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi. Milano,1983. Al di là del contesto strettamente politico, la parola auctoritas (e degli auctores) aveva un valore intrinseco perché proveniente dalle sacre scritture e dalla rivelazione divina o, nel caso dei romani, dalla fondazione della città. Essendo oggetto di fede, e di osservanza per tradizione, esse erano il riferimento indiscusso ed indiscutibile per ogni campo del sapere e per ogni forma di conoscenza. La forza di questo principio della fondazione e della tradizione viene fatta propria dalla Chiesa cristiana, erede politica e spirituale di Roma.L’auctoritas, infine, era il principio su cui si basava la conoscenza prima del cambio di paradigma rappresentato dalla conoscenza scientifica di Galilei e di Bacone. (4) Vedi N. BOBBIO-M.BOVERO, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano, 1979. Cfr. N. MACHIAVELLI, Il Principe. Si può leggere l’opera integralmente in formato elettronico all’indirizzo: http://www.liberliber.it/biblioteca/m/machiavelli/il_principe/html/. Cfr. anche Il testo di T. HOBBES, Leviatano, Editori Riuniti, Roma, 2005. Per Hobbes, il potere si fonda interamente sul patto tra popolo e sovrano assoluto, per LOCKE nella libertà ed eguaglianza di tutti gli individui.(5) Relativamente all’accesso e alla trasmissione delle conoscenze, La Riforma Luterana, com’è noto, ha contrastato il primato della Chiesa nell’interpretazione dei testi sacri, dando la possibilità di avvicinarsi autonomamente alle scritture. Quanto alle teorie darwiniane, freudiane e marxiane, con la loro ricerca di princìpi esplicativi tratti dalla natura stessa o dalla cultura umana, è evidente che esse hanno contribuito in modo sostanziale ad un’opera di demistificazione e di razionalizzazione.
(6) Vedi G. MARRAMAO, Potere e secolarizzazione, Editori Riuniti, Roma, 1983.
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