sabato 22 novembre 2008

Lavorare stanca? Pratiche e significati del lavoro


Capita spesso che nella vita quotidiana, incontrando persone nuove, ci si presenti agli altri con il proprio nome e, come capita di consueto, si informino i nuovi conoscenti del lavoro che si fa per vivere. Sono scene usuali e ci sembra del tutto naturale aspettarsi anche un commento sul lavoro che si fa e che l'altro ha dichiarato di fare. Perché ci sembra così naturale, appunto?

Quando si parla di lavoro si dovrebbe anche considerare che intorno ad esso e ai significati che gli sono stati attribuiti nel corso della storia si sono svolte battaglie culturali e politiche di primaria importanza e che al suo capezzale molti medici si sono pronunciati con diagnosi differenziate, spesso contrastanti. La storia delle idee testimonia come i vari pensatori che hanno focalizzato l'attenzione sul lavoro hanno sempre riconosciuto l'importanza e la centralità del lavoro per l'esistenza degli individui, anche se l'aspetto privilegiato è stato di gran lunga quello della querelle, mai risolta del tutto, della supremazia del lavoro intellettuale su quello manuale, traduzione materiale della superiorità della vita contemplativa sulla vita attiva. Anche la distinzione attualizzata della diversità del lavoro immateriale rispetto a quello materiale, testimonia come alcune concezioni sopravvivano anche nella nostra epoca che si configura, in prima battuta, come un'epoca in cui convivono aspetti arcaici, moderni e post moderni del lavoro.
In modo simile si ripresenta il dualismo tipico tra tempo di lavoro e tempo libero, all'origine inteso come tempo liberato.(1)

E' evidente, sulla base di questi brevi accenni, che il lavoro non è solo fatica e che nel suo dispiegarsi nel corso della storia si riflettono e si strutturano le relazioni umane, individuali e collettive.

Nella cultura classica, greca e romana, il lavoro fu associato ad uno stato di necessità, se non addirittura di pena e di fatica. Per la nostra sensibilità, invece, oltre ad essere un “percorso” obbligato per la sopravvivenza materiale, si è via via aggiunta, ma sarebbe meglio dire giustapposta, la concezione che si potesse provare piacere nell'attività lavorativa o addirittura che il lavoro potesse rappresentare un sistema di realizzazione personale.

La remunerazione del lavoro, su cui continuano ad affannarsi economisti, politici, sindacalisti, legislatori, si sdoppia proprio per inseguire questa duplice natura dell'attività lavorativa, connotandosi come retribuzione e come reputazione, riconoscimento economico e realizzazione personale.

Nell'età moderna, come ci ha insegnato Weber, è stata la cultura protestante a promuovere l'etica del lavoro, visto come strumento in grado di superare la condanna del peccato originale e idoneo a manifestare nella storia l'espressione e la realizzazione dei talenti donati da Dio. (2)
Solo nella sua ultima fase, con l'accentuarsi della divisione sociale del lavoro, ci si è staccati da questa concezione, e l'etica individualistica ha posto l'accento sulla soddisfazione e sulla gratificazione personale, generando l'idea del lavoro adatto a ciascuno e in relazione ai talenti personali.
Questa diversità di concezione modifica anche il concetto di tempo libero, un tempo non più così rigidamente separato dal lavoro ufficiale e invece posto quasi come modello per l'attività lavorativa, alla quale si chiede di essere il più simile possibile al tempo libero, per estrarne il valore di realizzazione e di compimento.

Quale lavoro si fa, come lo si fa, diventa un metro di misura della realizzazione individuale e per l'intera società. E' l'attuale divisione del lavoro sociale, con i problemi derivanti dalle diseguaglianze di accesso alle risorse materiale e intellettuali, a rendere drammaticamente irrisolta la tensione tra remunerazione e gratificazione. Differenziare e specializzare le attività, con l'aumento del fattore tecnico, se fa crescere la produttività e il valore del lavoro, come già aveva detto A. Smith, comporta anche un aumento esponenziale di lavori ripetitivi e alienanti, a fronte di un numero sempre più esiguo di lavori appaganti. Questa continua separazione tra lavoro appagante e lavoro di sopravvivenza, derivante dalla diseguale distribuzione del lavoro, è all'origine di molti problemi del mondo del lavoro, ivi compresa la tanto discussa questione della flessibilità e precarietà del lavoro, a seconda che si voglia sottolineare il senso di libertà e di opportunità di crescita professionale (flessibilità) o che invece si vogliano evidenziare gli aspetti più drammatici di un'occupazione a tempo determinato senza diritti e senza prospettive (precarietà).
A questo proposito, per venire ai dibattiti più prossimi a noi sulla forma che sta prendendo il “mercato del lavoro”, ci sarebbe da chiedersi se è davvero accettabile che i giovani, la parte più attiva e creativa della collettività, sia costretta in una condizione lavorativa connotata in modo così marcato come priva di speranza e di realizzazione personale.

Una sistema sociale autenticamente democratico non può e non deve disinteressarsi della qualità del lavoro e dovrebbe preoccuparsi di organizzare servizi sociali e formazione scolastica tali da distribuire equamente le opportunità di accesso e non a seconda della classe o del ceto culturale o professionale di appartenenza. Deve essere offerta una maggiore attenzione sulle condizioni materiali di partenza e si deve cercare di offrire maggiori opportunità per i giovani di aspirare ad un lavoro dignitoso e soddisfacente, invece di una realtà in cui spesso si scambia una fatica a tempo con la disponibilità a racimolare qualche soldo per sopravvivere. (3)

Per molti la prospettiva è di avere un'attività lavorativa mal remunerata, deprofessionalizzata e sottoposta ai ricatti e ai capricci della contingenza economica e dell'umore del datore di lavoro; per alcuni, pochi, la possibilità di avere un lavoro prestigioso e significativo (conquistato magari con favoritismi o clientele).

E' davvero preoccupante questa generale svalutazione del lavoro, della formazione e della cultura, se si pensa ai tanti interessati dibattiti sulla produttività e sul merito che riempiono “le gazzette”. L'esito di questo percorso, se non corretto, perverrà ad una società ancora più diseguale, più escludente, più ingiusta.

_________________

Note
(1)Cfr. F. De NARDIS, L’irreversibilità del moderno, SEAM, Roma, 2001. Vedi anche F. JAMESON, Il postmoderno e la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989.Interessante lo studio di C. SPARACO che tratteggia un percorso filosofico e culturale sul confronto tra moderno e postmoderno: C. SPARACO, Postmoderno tra frammentarietà e urgenza etica, in Dialeghestai, 2003. Reperibile alla URL: http://mondodomani.org/dialegesthai/cs01.htm.
Sul rapporto tra vita attiva e vita contemplativa vedi H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1997.
(2)Vedi il fondamentale saggio di M. WEBER, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Einaudi, Torino, 1976. Sulla divisione sociale del lavoro vedi E. DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, Einaudi, 1999 e K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1980.
(3)Vedi l'interessante lavoro di S. BOLOGNA, Ceti medi senza futuro, Derive Approdi, Roma, 2007. L'A. ha esplorato con acume i nuovi lavori autonomi e le nuove forme di soggettività che ne scaturiscono. V. anche AA.VV., Condizioni e identità nel lavoro professionale, Derive Approdi, Roma, 2008. reperibile anche in rete sul sito www.deriveapprodi.org.

Nessun commento: