sabato 14 febbraio 2009
Usi e significati del termine globalizzazione (seconda parte)
Come si è detto, per alcuni studiosi, il punto d'avvio dei processi di globalizzazione è collocabile nell'ultimo scorcio del XX secolo. Vi è un altro gruppo di studiosi che retrodatano la globalizzazione economica di vari secoli, per quanto sia generalmente accettato che l'integrazione economica a noi contemporanea, pur non essendo un fenomeno del tutto nuovo, presenta proprie peculiari caratteristiche che la differenziano dalle epoche storiche precedenti.
Storicamente, quindi, la globalizzazione economica non è un fenomeno completamente inedito. L'età mercantile, intorno al XVI secolo, ne è stato uno dei primi fenomeni di carattere transnazionale. Nella storia a noi più prossima, si può parlare di almeno altri due periodi precedenti quello presente, segnati da fenomeni di intensa integrazione economica mondiale:
a) il primo periodo si colloca nella seconda metà del XIX secolo , e va dalla prima rivoluzione industriale fino allo scoppio della I Guerra Mondiale (1914), con l'affermazione del sistema capitalista in Europa, attraverso una fase d'intensa espansione extra-continentale delle attività economiche e della sfera d'influenza politica dei paesi europei.
b) il secondo periodo è collocabile tra le due guerre mondiali (1919-1939), con la ripresa delle attività economiche su scala internazionale, che fu molto rapida ed intensa dopo i conflitti e le distruzioni legati al conflitto del 1914-18.
Peraltro, come detto, la globalizzazione contemporanea presenta alcuni tratti specifici, per intensità e qualità, che sono oggetto attualmente di particolare attenzione.
Uno dei più evidenti e controversi riguarda la cosiddetta finanziarizzazione dell'economia. Essa sta ad indicare la crescente importanza quantitativa e qualitativa del settore finanziario accanto ai settori produttivi dell'economia, nel senso che l'attività di imprese e consumatori dipende sempre più strettamente dalla possibilità di ottenere finanziamenti, e il comportamento dei manager è sempre più condizionato dalle valutazioni dei mercati finanziari e degli intermediari finanziari globali.
Su questo punto sarebbe bene sgombrare il campo da un grossolano equivoco che pare rimbalzare in molte analisi frettolose della grande crisi che le economie mondiali stanno attraversando in questo fine 2008, dopo la deflagrazione della bolla immobiliare statunitense. Si ritiene, infatti, che la crisi abbia colpito in primo luogo il settore finanziario e che solo dopo, in un secondo momento, essa si propagherà, come un incendio, al settore dell'economia reale. E' una visione a nostro avviso non all'altezza della comprensione del fenomeno.
Anzitutto, la crescente importanza del credito nell'economia non fa che portare a compimento la sua continua terziarizzazione, cioè l'aumento del ruolo dei servizi rispetto al settore manifatturiero. L'inceppamento del meccanismo che lega il credito all'industria e ai settori produttivi è dovuto ad una gigantesca crisi dei redditi e dei salari, nascosta e spostata nel tempo col credito facile. Interi settori del ceto medio che non potevano aspirare all'accesso a beni di consumo durevoli (case, automobili, ecc.) hanno trovato nel settore creditizio un'occasione per vivere al di sopra delle proprie possibilità, rinviando al futuro il pagamento dei debiti crescenti. Stupisce, semmai, che si ritenga il settore finanziario come un settore estraneo, sovrastrutturale, rispetto al sistema produttivo stesso. Esso è consustanziale al sistema di accumulazione della ricchezza, ne è la linfa vitale, è il meccanismo che fisiologicamente assicura l'allocazione del risparmio. E' la sua gestione, lasciata ad un'élite di tecnici sconosciuti e potenti, condotta con spregiudicatezza e smania di ricchezza facile, che ha provocato lo sconquasso che vediamo sotto i nostri occhi. E' il fallimento dei meccanismi di controllo sulla gestione del credito, che hanno portato al disastro attuale, con il collasso definitivo di tutti i sistemi di governance che sin qui avevano assicurato, dai tempi di Bretton Woods, un sistema relativamente stabile.
La crisi, inoltre, sembrerebbe risiedere nella enorme capacità produttiva del sistema manifatturiero e nell'impossibilità di sostenerla dal lato della domanda, da parte dei consumatori. Il sistema è stato drogato con questo meccanismo: alta capacità produttiva - bassi salari - credito facile - creazione di bolle speculative. L'immissione di denaro pubblico in questo meccanismo, comunque, non ne altera il funzionamento perverso, come mostrano i continui richiami un po' isterici al consumo per fermare la crisi. Stare all'altezza delle crisi, storicamente, ha sempre significato trarne le dovute lezioni, come sembra aver capito il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ha pronunciato un ispirato discorso in cui, tra le altre cose, si invitava ad un recupero della sobrietà e si preannunciava una decisa svolta nel corso da imprimere allo sviluppo economico. Si può ritenere che l'epicentro della crisi non sia la bolla speculativa – che l'ha portata a compimento, semmai – quanto di un sistema produttivo e di consumo che deve essere strutturalmente ripensato. E' il sistema della glorificazione del PIL che deve essere ripensato alla radice.
Altro elemento peculiare dei processi di globalizzazione in corso – è doveroso conservare la cautela metodologica necessaria, quando si tratta di processi ancora in corso e non conclusi – è l'avvento di quella che è stata definita società della conoscenza o network society, che sposta sull'informazione, sulla conoscenza tecnica e sulle capacità individuali la leva per l'efficienza in campo economico e per la creazione di valore, evidenziando quella che è stata definita la rivoluzione dei beni immateriali. Basti pensare che alcune società che fanno parte del settore cosiddetto dot.com, vale a dire quelle legate alle telecomunicazioni sia per le strutture hardware che per il software, hanno una capitalizzazione superiore a quella del settore manifatturiero. In tal modo si prosegue, come detto, in quella progressiva erosione della centralità del settore manifatturiero e all'aumento d'importanza in termini di creazione di valore del settore terziario avanzato.
Anche il consueto rapporto tra economia e territorio sembra investito di cambiamenti strutturali. Se per molto tempo siamo stati abituati a considerare come elementi del paesaggio le fabbriche, i capannoni, i laboratori, i piccoli esercizi commerciali, negli ultimi due decenni l'inasprimento della concorrenza nei settori esposti alla competizione mondiale, il tumultuoso allargamento dell'arena della competizione globale, hanno portato ad una iper competizione e ad una progressiva perdita d'importanza della collocazione geografica degli insediamenti produttivi, tanto da aprire un inedito contenzioso sull'identità dei beni e dei servizi prodotti e sulla loro collocabilità e tracciabilità. Per evitare la perdita d'identità dei beni e dei territori che per lungo tempo hanno legato la loro riconoscibilità proprio a questo legame del tutto peculiare, sono nati dei movimenti culturali, come ad esempio lo slow food, che hanno lanciato un allarme sulla perdita di saperi, di conoscenze e di qualità causati dalle produzioni industrializzate su larga scala. Più in generale, si è fatto avanti il cosiddetto glocal, quell'ibrido di locale e globale che intende tenere insieme la dimensione globale data dalla facilità di circolazione delle informazioni e la specificità dei localismi e la loro infungibilità. Come si è visto in questi anni, dall'ambito strettamente economico, la tendenza al glocal si è via spostata dalla circolazione dei beni e dei servizi anche in ambito politico, creando una reazione identitaria, nazionalista o di vero e proprio fondamentalismo identitario, come nel caso degli scontri di civiltà, contro i processi di indebolimento delle barriere culturali e religiose, in un mondo che scolora i suoi confini e tende a diventare sempre più uniforme. Non è difficile ipotizzare che i conflitti prossimi venturi che ci troveremo di fronte saranno sempre più legati a questioni identitarie e di affermazione di sé – in senso culturale, religioso, politico, ecc – piuttosto che di fronte ai tradizionali conflitti per le materie prime e per il controllo dei territori e dei flussi di ricchezza attraverso la potenza militare. Anche il concetto di terrorismo va sicuramente rivisitato ed ampliato, dovendo tener conto di questa dimensione ormai tipica dei processi di globalizzazione in corso. Il presumibile allargamento dei conflitti, inoltre, potrebbe portare anche alla coesistenza tra vecchie e nuove occasioni di conflitto e ad una loro interazione inedita delle cause generatrici di violenza.
(continua)
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