sabato 23 gennaio 2010
Remunerazione del lavoro e utilità sociale
La notizia che è circolata qualche tempo fa sull’utilità di alcuni lavori e sulla giusta remunerazione che spetta o dovrebbe spettare in base all’utilità sociale delle professioni, non ha suscitato particolare dibattito.
Eppure la questione meriterebbe un po’ più di attenzione, visto che va ad intaccare uno dei miti più persistenti rispetto al prestigio e al riconoscimento economico dati al lavoro.
In estrema sintesi, la notizia è questa.
Secondo alcuni economisti inglesi, appartenenti ad un interessante ed indipendente gruppo di ricerca che cerca di modificare il cosiddetto “pensiero unico” dell’economia di mercato, il valore sociale del lavoro che si fa non coincide con il valore economico che usualmente gli si assegna. (1)
Il NEF (New Economics foundation) ha infatti calcolato il valore economico e il valore sociale di alcuni lavori, sei per la precisione, di cui tre pagati molto bene e tre molto poco. (2)
Ponendo a confronto le attività di un addetto alle pulizie di un ospedale e quelle di un banchiere, si avrà come risultato per addetto alle pulizie di dieci sterline di profitto per ogni sterlina di salario, mentre per ogni sterlina guadagnata da un banchiere, ce ne sono sette perdute dalla comunità. Non bastasse questo, valutano ancora gli economisti, i banchieri sono i responsabili di campagne che creano insoddisfazione, infelicità e istigano al consumismo sfrenato. Analogo risultato se si opera un confronto tra un operatore ecologico ed un fiscalista: il primo svolge un’attività benefica per l’ambiente, mentre il secondo danneggia la collettività perché spesso opera per ridurre le tasse dovute dai contribuenti.
Come si vede, i principi di valutazione e le metodologie costruite per operare queste comparazioni fanno esplicito riferimento al valore sociale, ambientale ed economico del lavoro svolto e delle professioni di riferimento
Esaminando il contributo sociale del loro valore si è scoperto che i lavori pagati meno sono quelli più utili al benessere collettivo, ci dicono gli economisti del NEF.
Sembra di ascoltare a distanza di alcuni secoli le paradossali conclusioni che Mandeville ci aveva mostrato ne La Favola delle api (1729).
In quel libello, infatti, si assumeva che le società possono prosperare solo perché l’egoismo e il tornaconto individuale sono alla base delle azioni individuali e che sono ipocrite quelle società che non riconoscono che i vizi sono necessari perché vi siano virtù. (3)
C’è un implicito riconoscimento che molte attività lavorative non solo sono inutili ma addirittura dannose. Il paradosso del ragionamento Mandevilliano sembra rispettato: abbiamo bisogno dei vizi per far risaltare le virtù e per il progresso della società.
Se non per altri meriti, questo studio dovrebbe essere meglio apprezzato almeno per l’idea di fondo che dovrebbe esserci una corrispondenza diretta tra quanto i lavori sono retribuiti e il valore e l’utilità che essi generano per la collettività.
NOTE
1) Vedi http://www.neweconomics.org/. Il documento di cui ci occupiamo qui è al seguente indirizzo: http://www.neweconomics.org/publications/bit-rich.
2) La ricerca analizza nel dettaglio sei lavori diversi, scelti nel settore pubblico e nel settore privato. Tre di questi sono pagati poco (un addetto alle pulizie in ospedale, un operaio di un centro di recupero materiali di riciclo e un operatore dell'infanzia), mentre gli altri tre hanno stipendi molto alti (un banchiere della City, un dirigente pubblicitario e un consulente fiscale).
3) Come scrisse il medico e filosofo olandese, "Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa". Vedi http://www.filosofico.net/mandeville.htm.
Tratto da Rivista Lavoro e Post mercato, n° 77
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