venerdì 16 dicembre 2011

Un social network dedicato al volontariato. Il sito SHINY NOTE

Dopo un’attesa durata alcuni mesi, è diventato pienamente operativo il sito SHINYNOTE, ribattezzato con qualche esagerazione da titolista a corto di idee come il “facebook della speranza”.(1) 
Nonostante il nome, si tratta di un progetto italiano, con base a Brescia. L’idea che sostiene il progetto e il sito è rilevante e merita di essere segnalata, perchè mette insieme le piattaforme tecnologiche che sostengono le reti informali come i social network con alcune tematiche tipiche del terzo settore, come la solidarietà e il volontariato; come dicono i promotori sul sito, “abbiamo immaginato un social network fondato su basi etiche. Lo abbiamo costruito intorno alle storie delle persone, e lo abbiamo destinato a coloro che sanno rintracciare nel quotidiano una scintilla di speranza.”.


Questo elemento delle storie condivise con altri costituisce un altro punto interessante dell’intero progetto, proprio per la forza inclusiva delle narrazioni, accresciuta e resa più “calda” dalle storie che si portano all’attenzione degli internauti e dei potenziali aiutanti. 
E’ noto da tempo, infatti, il potere coinvolgente della narrazione per la comprensione del mondo e per l’azione nella storia. A partire dall’esperienza delle letterature, presenti in modo differente in tutte le culture, è abbastanza chiaro che accanto al pensiero tecnico, in grado di descrivere con precisione quantità e misure dei fenomeni, è altrettanto importante acquisire l’idea che la comprensione della realtà avviene anche attraverso le storie che si tramandano nel tempo. Come dicono esplicitamente gli organizzatori, si tratta di “cambiare il mondo, una storia alla volta”.


Si tratta di un sito dichiaratamente a caccia di buone notizie – e di buone pratiche -, che cerca di raccogliere adesioni, denaro o tempo intorno a delle storie che parlano di solidarietà, a partire dalle organizzazioni no profit che si dedicano ai temi più dimenticati o marginali rispetto agli eventi che si trovano sui grandi media. 


Gli strumenti dello scambio simbolico e materiale sono rinnovati e i “mi piace” alla Facebook non sono riservati solo ad aspetti ludici, ma servono a premiare o a evidenziare i progetti migliori a seconda delle preferenze degli utenti. 
In questo modo, con questo intento di fondo, le piattaforme on line potranno servire a far incontrare persone o associazioni che hanno voglia di lavorare insieme.


La nascita e l’attività di questo social network, poi, sono anche un buon modo per ricordare che il il 2011 è stato decretato dal Consiglio dell’Unione Europea “Anno Europeo del Volontariato”. (2)


NOTE
1) Vedi http://www.shinynote.com/.
2) Per maggiori informazioni vedi http://ec.europa.eu/citizenship/focus/focus840_en.htm. e http://europa.eu/volunteering/. 


Tratto da Rivista Lavoro e Post mercato n° 106

mercoledì 28 settembre 2011

LEGGE BAVAGLIO ! Ci riprovano ancora





 LEGGE BAVAGLIO
CI RIPROVANO.
FERMIAMOLI!!!!!!!!


Il Pdl accelera. La maggioranza vuole riproporre il testo Mastella presentato all'epoca in cui era ministro di Grazia e Giustizia. E se dovesse passare sui giornali non sarà più possibile pubblicare, addirittura fino alla sentenza d'appello, gli atti integrali contenuti nel fascicolo del pubblico ministero.

Da Repubblica.it

domenica 10 luglio 2011

L'esigenza comunista

Il 6 maggio 1934 Walter Benjamin rispondeva al suo amico Scholem: «Di tutte le forme e le espressioni possibili il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo, di una professione di fede [...] a costo di rinunciare alla sua ortodossia – esso non è altro, non è proprio nient’altro che l’espressione di certe esperienze che ho fatto nel mio pensiero e nella mia esistenza, è un’espressione drastica e non infruttuosa dell’impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l’economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza [...] il comunismo rappresenta, per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita».
Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.
Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.
Ripenso a quella lettera a Scholem, così giusta e dura nei toni, quando l’ipotesi comunista si ripresenta nelle voci autorevoli che compongono il libro appena pubblicato da DeriveApprodi, L’idea di comunismo (maggio 2011, pp. 256, euro 18,00). Penso soprattutto a Badiou (il cui contributo ha visto la luce anche in un apposito volumetto di Cronopio dal titolo L’ipotesi comunista) e a Negri: penso all’Idea comunista secondo Badiou, quale «forzatura» dell’impossibile in direzione del possibile, forzatura che opera come una «sottrazione» del potere statuale. Penso alle parole di Negri: essere comunisti significa oggi come ieri «essere contro lo Stato», resistere al rapporto di potere capitalistico in nome di un possibile che non si riduce alla configurazione statuale («i soggetti si propongono sempre come elementi di resistenza singolare e come momenti di costruzione di un’altra forma del vivere comune»). Negri lega poi questa resistenza al suo concetto di «moltitudine», e questo a quello marxiano di classe: le singolarità compongono la moltitudine, le singolarità non soltanto soggiacciono ma resistono al capitale, «la moltitudine è concetto di classe». Se c’è una possibilità, è anche qui nel «rapporto di forza che si esprime fra il padrone e il proletario», cioè nella lotta di classe. Marx diceva: decisiva è la «forza» (Gewalt).
Dunque: il comunismo come possibilità che si dà oltre lo Stato; come possibilità contenuta in quella forza (o violenza, poiché le nostre parole si riuniscono nel tedesco Gewalt) che scontrandosi con lo Stato riesce a resistergli, cioè a sottrargli potere; forza che appartiene alla classe, violenza di cui solo la classe è capace. Questo è il punto, ancora oggi; e a chi crede che ragionare in termini di classe sia davvero poco à la page, risponderà il sillogismo di Marchionne: poiché le classi non esistono, ubbidite al padrone. Si tratta dunque, ancora una volta, di quel grado estremo nel quale la dinamica potere-resistenza raggiunge l’antinomia, grado decisivo di tensione e resistenza che Marx ha espresso con la formula: «catene radicali».
Vorrei allora tornare a Benjamin, riprendendo e sviluppando alcuni temi toccati in un mio libretto intitolato appunto Classe (Bollati Boringhieri 2009). Nel 1936, Benjamin compone la cosiddetta zweite Fassung del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si tratta della stesura più completa e importante del saggio. Ora, questa versione contiene com’è noto una lunga nota sul concetto di classe, nota assai apprezzata da Adorno nella famosa lettera a Benjamin del 18 marzo 1936, che per il resto era invece fortemente critica. La nota si apre con queste parole: «La coscienza di classe proletaria, che è la più chiarita, tra l’altro modifica profondamente la struttura della massa proletaria». Questo nel 1936, quando la massa proletaria tedesca che tanto piaceva agli apparati di partito era caduta nelle braccia del nazismo, quando il fascismo era ormai penetrato negli ambienti operai in profondità, e – come scrisse Wilhelm Reich – da due parti: attraverso il Lumpenproletariat («una espressione che fa rizzare i capelli») e la sua corruzione materiale, e attraverso l’«aristocrazia operaia» e la sua duplice corruzione, materiale e ideologica.
Proprio in queste condizioni, cioè quando la stolida fiducia nella «base di massa» aveva dato i suoi frutti, Benjamin pensava alla coscienza di classe come modificazione della struttura di questa massa. Che tipo di modificazione? Un allentamento, un rilassamento, una Aufloc-kerung, si legge nelle righe successive. Di cosa? Delle pressioni, appunto, che producono la pericolosa massa piccolo-borghese. Se esiste una coscienza di classe proletaria, sarà anche e necessariamente un allentamento capace di impedire la trasformazione di quella massa di operai in una folla pericolosa, nella folla studiata dai maestri della psicologia sociale di fine Ottocento: «Le Bon e gli altri». Proprio qui, dove ci aspetteremmo almeno un riferimento all’amplissima letteratura di stampo marxista, Benjamin ricorre ad autori ben diversi e persino reazionari. Cita Le Bon. Ma «citare» significa per lui salvare qualcosa strappandolo al contesto originario: la foule dangereuse, la folla che per Le Bon segue il suo capo in stato ipnotico, viene così strappata alla sua condizione di modello ideale, viene storicizzata e riconosciuta con precisione nella massa piccolo-borghese. Perché la piccola borghesia non è neanche una classe (ist keine Klasse) ma soltanto una folla. È la massa compatta (kompakte Masse) del totalitarismo, compressa dalle paure, dalle spinte degli antagonismi sociali, che non agisce ma è solo reattiva, e in cui prevale l’odio razzista, l’entusiasmo sonnambolico per la guerra. «In questa massa, in effetti, è determinante l’istinto gregario». Il suo modello è stato plasmato dal capitale: un semplice aggregato di individui che non hanno nulla in comune se non gli interessi privati. Sono i clienti, riuniti casualmente nel mercato.
E se il capitale è appunto interessato al controllo di questa massa eterogenea di semplici consumatori, lo Stato esegue ora il suo compito storico: rende le adunate perenni e obbligatorie offrendo agli individui un modo di venire a capo della propria situazione, di farsi una ragione del loro assembramento casuale in termini di razza, sangue, suolo; offrendo a questa folla gregaria e ipnotizzata una guida sicura, cioè un politico-attore, un divo-ammaliatore. La «prestazione» (Leistung) specifica di questo capo sarà infatti saper stare di fronte alla macchina da presa.
La coscienza di classe è invece attiva: opera l’allentamento delle pressioni e lo fa, per Benjamin, attraverso la solidarietà (Solidarität). Ora anche questa parola, «solidarietà» (la più usata), acquista qui un senso del tutto nuovo. Perde il suo significato militaresco di formazione compatta, si allontana dal dovere e dal debito (essere in solido), fa anch’essa la prova del rilassamento (abbandono delle paure, solidarietà del piacere, edonismo rivoluzionario: sono i temi che nel libro avevo cercato di sviluppare attraverso il marxismo epicureo di Jean Fallot). Questa classe solidale non può essere mai ipostatizzata, mai riconosciuta in alcun «soggetto» determinato: non è altro che dissoluzione costante delle tensioni. È il contro-movimento che resiste alla formazione della folla piccolo-borghese (compressa tra paure e speranze) in seno a qualsiasi formazione sociale. E se c’è un capo rivoluzionario, se qualcuno indica la strada, è colui che non si lascia mai ammirare. La sua «prestazione» sarà: sapersi immergere sempre di nuovo, scomparire, solidale, nelle pieghe della massa, diventare «uno dei centomila». Facciamo nostra questa prestazione: allentiamoci.
Auflockerung è qui il termine chiave. Anche se Adorno l’aveva curiosamente trascurato. Nella lettera del 18 marzo 1936, infatti, scriveva: «Non posso concludere senza dirle che le poche frasi sulla disintegrazione (Desintegration) del proletariato come “massa” (‘Masse’) attraverso la rivoluzione rientrano per me tra le più profonde e potenti, sul piano della teoria politica, da quando ho letto Stato e rivoluzione». Ora, Benjamin non aveva mai parlato di disintegrazione, ma di una trasformazione della struttura sociale. E non aveva certo scelto a caso la parola: Auflockerung.
Come chiarirla? A partire da un’ipotesi per così dire filologica. Direi che Benjamin riprende qui, nel saggio sull’arte di massa, un terminus technicus della sua filosofia, e in particolare della sua meditazione estetica; direi che egli riprende qui, dove «l’estetica diventa politica», il concetto chiave di un saggio giovanile, dedicato a Due poesie di Friedrich Hölderlin. Si trattava, in quelle pagine del 1914-15, di determinare il compito dell’esegesi. L’esegeta, diceva Benjamin, deve rivolgersi alla poesia (Gedicht) facendo emergere quel dettato (Gedichtete) che ha guidato il poeta e a cui il poeta è riuscito a dare sì un’espressione in atto (in quel testo che abbiamo sotto gli occhi), e tuttavia una determinazione limitata. Qualcosa del dettato è rimasto ancora in potenza, ancora esprimibile. Deve allora occuparsene il buon esegeta. Come può farlo? Non è forse questo dettato qualcosa di troppo vago, come un’idea prima e ormai inattingibile, il non-so-che di un’ispirazione di fatto indeterminabile? Al contrario, risponde Benjamin, il dettato si differenzia dall’opera solo «per la sua maggiore determinabilità: non per una mancanza quantitativa, ma per l’esistenza potenziale delle determinazioni in atto nella poesia, e di altre».
L’esegesi consisterà allora in un «allentamento» (Auflockerung) dei legami interni, funzionali, che governano l’opera poetica e le conferiscono la sua forma attuale. L’esegesi – diremo – è dunque una modificazione profonda della struttura dell’opera: è quell’atto che forza il dato testuale, flette le sue giunture, spezza i vincoli prosodici e fa apparire, nell’opera stessa, uno spettro di possibilità ancora aperte. L’esegesi è lo sviluppo e il dispiegamento dei possibili che un testo poetico serba in sé, ancora inespressi. Per questo ogni autentica poesia, potremmo dire ancora, esige l’operazione esegetica.
Come si sa, Benjamin scrisse negli anni del saggio sull’Opera d’arte quello sul teatro epico di Brecht, in una prima versione nel 1931 e poi in quella definitiva nel 1939. Questo teatro, diceva il testo del 1931, si distingue dagli altri poiché non richiede che il pubblico lo segua come una «massa ipnotizzata». E la stesura del ’39 precisava: il pubblico del teatro epico è un pubblico rilassato (entspanntes Publikum), che segue l’azione con distacco, un pubblico critico e allentato (gelockert). Il teatro brechtiano rappresentava per Benjamin, dunque, una tecnica di allentamento. E nella forza che distrugge la «quarta parete», nella cancellazione della differenza ovvero nella piena solidarietà tra attore e pubblico – come anche nell’ammirazione di Benjamin per il cinema privo di «attori» dell’avanguardia russa – riconosciamo il modello della politica o dell’esigenza comunista.
La classe rivoluzionaria è un rilassamento del pubblico. Il comunismo è un’azione di allentamento: scioglie tutte le catene sciogliendo quei legami aberranti (i miti biopolitici del territorio, della razza, della patria o del lavoro) che lo Stato dispone per organizzare l’ammasso casuale dei consumatori e contenerne le spinte dissolutorie. Sciogliendo questi legami (e la massa nella classe), il comunismo dispiega la potenza del nostro essere insieme (la nostra piena determinabilità). Dove c’è il divo-attore, dove si dà un maestro della posa (e sia anche una posa di sinistra), ci sono solo folla e fascismo. Il comunismo non riconosce nessun divo.

FONTE: Alfabeta2

sabato 4 giugno 2011

Vai a votare ai referendum del 12 e 13 giugno!!!!!

E' importante per vari motivi:

1) Per dare un'altra scoppola al Napoloni che sta a Palazzo Chigi (do you remember "Il Grande Dittatore" di Chaplin?) e fargli fare la fine di Craxi.
2) Per salvare i referendum come sistema di democrazia diretta.
3) Per cancellare la vergogna del legittimo impedimento.
4)Per evitare la costruzione di centrali nucleari.
5) Per difendere i beni comuni, a cominciare dall'acqua.





Vai a votare!!!!!

domenica 15 maggio 2011

Accesso a Internet nella Costituzione. Una proposta legislativa



Nel corso degli ultimi anni la dimensione della “policy” nella gestione tecnica della rete delle reti è diventata sempre più centrale nelle sedi politiche internazionali come nei contesti nazionali, nel tentativo di allineare i tempi delle decisioni politiche con la crescita tumultuosa della società della conoscenza.

Come da più parti è stato osservato, non è possibile misconoscere le enormi potenzialità legate a Internet in termini di diffusione di conoscenza come non è possibile, per altri versi, esimersi dalla regolazione democratica e trasparente del’intero sistema di garanzie e diritti che la rete richiede.
Nei mesi scorsi, presso la sede italiana dell'Internet Governance Forum (1) che annualmente riunisce attorno a tavoli di lavoro tematici i diversi soggetti (cittadini, enti locali, università e imprese) coinvolti nell'utilizzo e nello sviluppo della rete, è stato presentato il testo di un articolo di modifica della Costituzione italiana, l’art. 21 bis, che espande e precisa il senso della libertà d’espressione e del diritto all’informazione alla luce delle profonde modifiche tecnologiche introdotte dalle reti di telecomunicazione e, in particolar modo, del ruolo di Internet per la conoscenza e l’informazione.

Questo il testo dell’articolo proposto, frutto di un accurato lavoro che ha coinvolto anche il linguista professor Tullio De Mauro: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”.

Per chi ha dimestichezza con la Costituzione si vede che si tratta di un intervento di tutto rispetto, visto che va a incidere sulla Prima Parte della Carta Costituzionale, quella dei diritti e doveri dei cittadini.
Essendo una materia ancora da plasmare, il dibattito tra gli stakeholders e gli esperti si è fatto abbastanza serrato e non sono mancate critiche e distinguo. Prima di affrontarle, è bene capire qual è la ratio di una norma di rango costituzionale come questa.

La collocazione nell’alveo dell’art. 21, infatti, “trasformerebbe” Internet in un diritto fondamentale, una precondizione tecnologica necessaria per la completa applicazione della libertà d'espressione e del diritto ad essere informati, a loro volta condizioni fondamentali per il pieno esercizio della cittadinanza.
Per rendere effettivo questo “complesso” di diritti, diventa indispensabile un intervento pubblico finalizzato a intervenire sul digital divide, il divario digitale.

Com’ è noto il divario digitale ha fondamentalmente due aspetti, uno tecnologico ed uno formativo. Con il primo aspetto si individuano le difficoltà nelle possibilità di accesso alla rete tra cittadini italiani più o meno serviti da connessioni a banda larga; con il secondo aspetto si individua la capacità degli utenti di essere più o meno in grado di utilizzare proficuamente le risorse informative e conoscitive offerte dalle reti di comunicazione.

Come si diceva, le reazioni a questa proposta non sono mancate. Tra i più severi critici coloro che considerano questo tipo di norme come una forma di interventismo statale, inefficace per la natura transnazionale delle reti e pericoloso per le libertà democratiche. Altri l’hanno criticata per la sostanziale inutilità, poiché la lettura combinata degli artt. 21 e 3 della Costituzione sarebbe più che sufficiente a tutelare la libertà di accesso alla Rete.

Per concludere, va detto che la costituzionalizzazione di Internet avrebbe il pregio di offrire una cornice generale alla legislazione ordinaria, evitando i rischi di normative scollegate tra di loro e in contraddizione con i principi democratici fondamentali. Questo tipo di tematiche, però, stenta a trasformarsi in un argomento di dibattito centrale per l’opinione pubblica, come se in fondo si trattasse di mere questioni tecniche che non incidono profondamente sul concreto esercizio dei diritti di cittadinanza e sullo sviluppo degli individui e della società nel suo complesso.
Dovrebbe essere sempre più chiaro, però, che Internet riguarda o riguarderà tutti.



NOTE
1) Vedi http://www.igf-italia.it/. La proposta è stata elaborata dal giurista Stefano Rodotà, attento conoscitore delle problematiche apportate da Internet alle società democratiche. La proposta è approdata in Parlamento ed è contenuta nel disegno di legge 2485 presentato da 16 senatori. La rivista Wired Italia ha lanciato da qualche tempo una petizione online sull’argomento: http://mag.wired.it/news/diritto-internet2911.html.

Tratto da:
Rivista Lavoro e post mercato n. 104

Sommario Rivista Lavoro e Post Mercato n. 106

Lavoro e Post Mercato
Quindicinale telematico a diffusione nazionale a carattere giornalistico e scientifico di attualità, informazione, formazione e studio multidisciplinare nella materia del lavoro

vedi la rivista completa

Rivista n. 106 - del 16-03-11

Sommario

Argomento: Info lavoro

Lavoro: la certificazione della trasmissione telematica dei documenti e la Marca Postale Elettronica (EPCM)

Con il Decreto del 4 dicembre 2010, pubblicato nella GU n. 49 del 1 marzo 2011, sono state definite le modalità tecnologiche per garantire la sicurezza, l'integrità e la certificazione della trasmissi...

Rita Schiarea




Argomento: Rete sociale

Lavoro, intolleranza e persecuzioni: ucciso in Pakistan il ministro delle minoranze religiose il cattolico Shahbaz Batti

La notizia dell'ennesima persecuzione contro i cristiani si è abbattuta nella quasi totale indifferenza dell'europa comunitaria troppo presa nella cancellazione delle feste cristiane dalle proprie a...

Diego Piergrossi



Argomento: Rete sociale

Un social network dedicato al volontariato. Il sito SHINY NOTE

Dopo un’attesa durata alcuni mesi, è diventato pienamente operativo il sito SHINYNOTE, ribattezzato con qualche esagerazione da titolista a corto di idee come il “facebook della speranza”.(1) ...

Antonio M. Adobbato



Argomento: Formazione

Comunicazione: mentre il mondo trepida per il Giappone la Libia e l'Arabia Saudita ristabiliscono la PAX territoriale

Vivere il proprio tempo, cercando di leggere il più oggettivamente possibile la storia non è facile nemmeno per chi viva in Occidente ed abbia accesso ai media più sofisticati ed ad un numero impress...

La Redazione (R.S.)



Argomento: Evoluzione normativa

Abilitazione di insegnanti ed istruttori di autoscuola: ridisciplinati i corsi di formazione e le procedure abilitative.

E' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.57 del 10 Marzo 2011 il Decreto 26 gennaio 2011, n. 17 rubricato "Regolamento recante la disciplina dei corsi di formazione e procedure per l'abili...

Giuseppe Formichella




Argomento: Evoluzione normativa

Raccordi tra i percorsi degli istituti professionali e i percorsi di istruzione e formazione professionale: pubblicate le linee guida.

Importanti novità nel comparto Scuola il Decreto 18 gennaio 2011 contenente le "Linee guida, ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quinquies del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con...

Pierfrancesco Viola

sabato 16 aprile 2011

Vivere per una notte da senzatetto


E’ vero che si fa fatica a orientarsi nelle innumerevoli commemorazioni che ci vengono continuamente proposte per richiamare alla nostra memoria gli innumerevoli problemi che il mondo deve affrontare; è tanto vero che un pubblicitario francese, Vincent Tondeux, ne ha creato un elenco davvero impressionante, con circa 200 giorni impegnati su 365; ci sono le giornate mondiali per la pace e quella dello scoutismo, quella dedicata al giorno senza facebook e quella della cortesia al volante, quella dedicata al sole e quella dedicata all’ipertensione.
Insomma un elenco disparato e, a leggerlo con un po’ di distacco, con un effetto vagamente comico. (1)

Comunque, chi è interessato a proporne qualcun’altra deve sbrigarsi, perché i giorni disponibili stanno finendo.

Fuori dal fastidio per un affollamento necessariamente caotico, nelle “giornate mondiali” vi sono però eventi estremamente significativi, per i soggetti che lo propongono e per gli oggetti portati all’attenzione di tutti. Tra questi vi è sicuramente quella che si è celebrata qualche settimana fa, la Giornata Mondiale ONU contro la povertà (17 ottobre).

In genere, per richiamare l’attenzione su qualche problema si ricorre all’uso di numeri, di statistiche, di confronti storici, di comparazioni tra legislazioni e sistemi sociali differenti. Più raramente, invece, si ricorre alle storie individuali, alle concrete esperienze di coloro che ne sono coinvolti in prima persona.
Va in questa direzione un’esperienza che si è tenuta in varie città d’Italia, e a Roma in particolare, qualche settimana fa.
In occasione di questa Giornata Mondiale si è deciso di ricordare, per il decimo anno consecutivo, i senzatetto, coloro che dormono per strada, con la manifestazione “La Notte dei Senza Dimora”.(2)

Si tratta del tentativo di offrire spunti di riflessione che vadano oltre i consueti canali di divulgazione di contenuti per mezzo dei convegni e delle raccolte di dati, nel tentativo di offrire un’opportunità di avvicinarsi ad alcuni problemi con una trasmissione di contenuti per mezzo delle emozioni suscitate e della immedesimazione empatica nelle situazioni di disagio.

Tra le tante iniziative correlate alla manifestazione “Portami a fare un giro”, un’esplorazione dei luoghi della città con gli occhi dei senza dimora. Da segnalare anche la premiazione de “La vita di un senza dimora”, un vero e proprio concorso letterario con le poesie e i racconti ispirati dall’esperienza di vivere in strada. Ma, soprattutto, a mezzanotte con il sacco a pelo si è dormito in piazza.
Secondo le associazioni che hanno organizzato l’evento, sono state molte le persone coinvolte dalle varie iniziative, mentre in 60 hanno deciso di aspettare l’alba insieme ai senza dimora dormendo a Piazza dell’Immacolata a San Lorenzo.

Riportiamo, per concludere, le parole di uno degli organizzatori: “Ha rappresentato un momento di riflessione e di denuncia, un momento per i senza dimora ma soprattutto per i cittadini … È a loro che spero sia arrivato il nostro messaggio: aprite gli occhi e guardate ciò che avete intorno a voi.”



NOTE

1)Vedi http://www.journee-mondiale.com/plan.php.
2)Vedi il sito che raccoglie racconti e fotografie di quest’esperienza: http://www.lanottedeisenzadimora.it:80/.



Tratto da Lavoro e Post mercato n. 100

giovedì 31 marzo 2011

Togliersi la vita per mancanza di lavoro. Centralità del lavoro (seconda ed ultima parte)

Nella prima parte di questo intervento abbiamo sottolineato (V. LPM n°94) come sia ancora difficile collocare concettualmente il fenomeno dei suicidi per mancanza di lavoro e ci siamo rivolti per così dire ai classici sull’argomento per tentare una ricognizione generale e per cercare qualche elemento di comprensione e la presenza di aspetti inediti nell’emergere di questo fenomeno.

Quanto a Durkheim, che abbiamo citato nella prima parte di questo intervento, per il sociologo francese ci sono tre tipi fondamentali di suicidio.

Il primo tipo, il suicidio cosiddetto egoistico, si manifesta quando le persone che lo compiono sono così autocentrate da non poter ammettere di non riuscire a raggiungere gli obiettivi che si sono posti. Più elevati sono gli obiettivi, maggiori sono i rischi.

Il secondo tipo, diverso dal precedente, è riferibile alle personalità ben inserite nel contesto sociale e che possono arrivare a compiere questo tipo di gesti per soddisfare una qualche specie di imperativo sociale, superiore al principio di conservazione, come ad es. per i capitani delle navi che affondano insieme alle imbarcazioni.

Il terzo tipo, quello che ha dato giustamente celebrità al pensatore francese, vero punto di riferimento imprescindibile per tutti gli studi sull’argomento, è il cosiddetto suicidio anomico, tipico delle società moderne, che statisticamente collega il fenomeno dei suicidi con i cicli economici e con le condizioni familiari e professionali degli individui. Le prove empiriche dimostrano con le dovute evidenze statistiche che ad es. ci si toglie meno la vita fra le persone sposate rispetto ai celibi, perché la famiglia, la religione, così come l’ appartenenza professionale, fa si che gli individui facciano parte di gruppi la cui coesione e il senso di appartenenza rinforza in ognuno le ragioni per vivere, offrendogli un indispensabile ambiente umano più di quanto non neghi la sua espansione e non ne limiti le capacità.

Per l’autore, che ha in gran conto la coesione e la persistenza dei sistemi sociali, questi fenomeni dipendono dalle fasi di trasformazione e di frantumazione dell’equilibrio sociale. E’ ciò che egli chiama anomia, rottura degli equilibri della società e sconvolgimento dei suoi valori.
E’ vero che il determinismo sociale pensato dall’autore stride con la sensibilità corrente che attribuisce alla volontà individuale l’ultima voce in capitolo per ogni evento. Ma anche in questo caso si tratta di un determinismo (e di un’ideologia) a parti rovesciate.

Per uscire da questa sterile contrapposizione, e forse cogliere qualche aspetto delle novità che presentano questi eventi tragici, va avanzata l’idea che se è vero che i legami sociali sono determinanti per spiegare scelte così estreme, è anche vero che entro certi limiti gli individui “scelgono” in un repertorio che muta secondo i tempi e le prospettive dei particolari contesti sociali.

In fondo è quello che i vari social network portano alla luce: gli individui condividono con altri rappresentazioni collettive, micro-ideologie, credenze e stili di vita che creano la fisionomia di una forma di vita specifica nella quale ci si sente a casa propria, a volte ben più che nel proprio ambiente familiare, perché in quest’attività si esercita la socializzazione e la realizzazione dell’identità, frutto di una più o meno faticosa autocostruzione.
Quindi bisogna sfuggire anzitutto all’idea che vi sia una sorta di automatismo economicista, per cui nei momenti di crisi come quello attuale gli anelli più deboli, la forza lavoro più marginale e meno ricollocabile, sia espulsa dai cicli produttivi e abbandonata a sé stessa. Questa marginalizzazione sarebbe la causa principale del fenomeno dei suicidi per mancanza di lavoro. Che vi sia anche questo aspetto non ci possono essere dubbi. Qualche dubbio rimane se esso sia da considerarsi come unico.

Come abbiamo cercato di dimostrare, l’attività lavorativa coinvolge l’intera esistenza degli individui, ne modella la fisionomia e le aspettative, aiuta a sostenere psicologicamente e socialmente legami profondi con le altre persone, oltre a procurare un reddito per vivere. Accanto alla sfera della riproduzione (reddito) c’ è una sfera della produzione di senso (simbolica) che è altrettanto importante. La perdita del lavoro, insomma, non è solo perdita del reddito. E’ perdita d’identità e di reputazione sociale, perdita di senso e mancanza di futuro e di progettualità. Quando si perde il lavoro, si perde tutto questo, non solo il reddito.

E veniamo ad un ultimo punto, cui dedicheremo solo poche battute e che avrebbe bisogno di un più ampio spazio per essere sviluppato ed approfondito. Il tema è quello della politica economica, vale a dire quella branca del sapere caduta ormai in gran sospetto e sempre più osteggiata dai cultori del pensiero unico del mercato e della competizione riequilibratrice a lungo termine. Citiamo, per sgombrare il campo da equivoci, la celebre frase keynesiana: “a lungo termine saremo tutti morti”.

La domanda con la quale chiudiamo questo intervento è la seguente: può una politica economica degna di questo nome, non quella surrettiziamente condotta dalle agenzie di rating e dalle insindacabili scelte dei mercati (1) , ma una seria attività di analisi e di correzione delle storture degli automatismi economici, fare propri ed includere nei suoi strumenti analitici la centralità del lavoro come elemento prioritario rispetto al profitto e alla logica degli investimenti redditizi?



NOTE
1) Basti pensare che è invalsa ormai l’abitudine di valutare la redditività di un’impresa e degli investimenti ogni trimestre (!). Se vi sono forti oscillazioni dei mercati o difficoltà di approvvigionamento, per salvaguardare la remunerazione degli azionisti, si procede sempre più frequentemente con l’espulsione della forza lavoro, in modo da riequilibrare i conti e assicurare gli utili.





Tratto da Rivista Lavoro Post mercato n° 96

sabato 5 marzo 2011

Summertime

Sarà perchè ho voglia di estate e, d'accordo con Proust coi ricordi a catena, ho seguito l'associazione mentale di Summertime, Porgy and Bess e poi di Ella Fitzgerald.

E allora per condividere con chiunque visiti questo blogghetto, ci metto il testo della canzone
Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high

Your daddy's rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry

One of these mornings
You're going to rise up singing
Then you'll spread your wings
And you'll take to the sky

But till that morning
There's a'nothing can harm you
With daddy and mamma standing by


e il video


Buon ascolto

martedì 22 febbraio 2011

Sommario Rivista Lavoro e Post Mercato n° 96

Lavoro e Post Mercato
Quindicinale telematico a diffusione nazionale a carattere giornalistico e scientifico di attualità, informazione, formazione e studio multidisciplinare nella materia del lavoro

vedi la rivista completa

Rivista n. 96 - del 16-10-10


Sommario

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Argomento: Laboratorio sociale

Semplificata la disciplina degli sportelli unici per le attività produttive

Con il Dpr n.160 del 7 settembre 2010, pubblicato nella G.U. del 30 settembre 2010, viene riordinata e semplificata la disciplina degli Sportelli unici per le attività produttive.

Lo Spo...

Diego Piergrossi


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Argomento: Info lavoro

Incentivi per le assunzioni di lavoratori con indennità di disoccupazione

La Legge Finanziaria 2010 (L. del 23/12/2009 n. 191) assegna un beneficio, in forma di riduzione contributiva o di incentivi, ai datori di lavoro che assumono lavoratori titolari dell’indennità di dis...

Rita Schiarea



Argomento: Formazione

Programmazione economico finanziaria: dal DPEF alla Decisione di Finanza Pubblica (DFP)

Lo schema di Dfp per gli anni 2011-2013 viene quest’anno presentato per la prima volta in sostituzione del Documento di programmazione economico e finanziaria ai sensi della nuova normativa in tema di...

Pierfrancesco Viola


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Argomento: Disagio lavorativo

Lavoro nero: firmata la convenzione per una intensificazione dei controlli

Non ci saranno più solo i nuclei specializzati dei carabinieri in prima linea contro il lavoro nero, ma tutti i reparti dell'Arma territoriale, per rendere più capillare l'azione di contrasto ai fenom...

Giuseppe Formichella


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Argomento: Approfondimento

Disciplina relativa alle controlled foreign companies (CFC)

Nell’ambito della strategia di contrasto agli arbitraggi fiscali internazionali, l’articolo 13 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito (con modificazioni) con legge 3 agosto 2009, n. 102, ...

La Redazione (R.S.)


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Argomento: Approfondimento

Togliersi la vita per mancanza di lavoro. Centralità del lavoro (seconda ed ultima parte)

Nella prima parte di questo intervento abbiamo sottolineato (V. LPM n°94) come sia ancora difficile collocare concettualmente il fenomeno dei suicidi per mancanza di lavoro e ci siamo rivolti per così...

Antonio M. Adobbato


continua..

Togliersi la vita per mancanza di lavoro

L’universo del lavoro, come è ovvio che sia, è continuamente studiato e vivisezionato in tutte le sue sfaccettature e implicazioni.
Suscita qualche riflessione il fatto che al di la della registrazione delle cronache giornalistiche, non si sia posta sufficiente attenzione ai diversi casi – nel’ordine delle decine – di lavoratori suicidatisi per mancanza di lavoro.(1)

Come avevamo notato in altri interventi, la questione del lavoro coinvolge in modo profondo l’identità personale e sociale, tanto da sovrapporsi ad esse in molti casi.(2)

Molto sbrigativamente, le cronache che leggiamo sulle pagine dei giornali ci raccontano i contorni di una terribile scelta: i luoghi, la famiglia e le persone coinvolte, le difficoltà economiche, il cordoglio di tutti e l’inspiegabilità del gesto estremo.
E’ sempre difficile comprendere le ragioni di un gesto così disperato e risulta stridente e ancor più incomprensibile associare un suicidio a motivi di lavoro. Quelle che seguono sono alcune riflessioni suscitate da questi tragici eventi.

La prima, immediata, riguarda un aspetto per così dire politico e sindacale. A riprova che il conflitto sui luoghi di lavoro non è stato cancellato, ma solo espunto come un fastidioso elemento di disturbo nella convinzione che le magnifiche sorti e progressive del mercato avrebbero trovato una soluzione anche per i disturbatori della pace sociale, ci troviamo di fronte ad un’azione individuale, portata all’estremo sacrificio, di rifiuto di una realtà nient’affatto pacificata e segnata da profonde crepe di malessere.
Per tutto il tempo in cui sono state istituite e hanno operato le rappresentanze dei produttori e dei salariati – un tempo che coincide con la rivoluzione industriale e la fabbrica fordista – la gestione del conflitto e del malessere causato dal lavoro ha avuto una dimensione collettiva e ad ogni passaggio di crisi si è risposto con la creazione di adeguati sistemi di protezione e di tutela. La globalizzazione dei mercati, la feroce competizione sui costi del lavoro, l’anonimato imperscrutabile dei mercati finanziari, la crisi strutturale di un sistema che è capace di alimentarsi e crescere solo nel breve termine, scaricando sulle future generazioni problemi economici, finanziari e ambientali sempre più gravi, hanno provocato un indebolimento sempre più marcato delle istituzioni collettive, statuali e sociali.

A questa incapacità istituzionale di gestione delle crisi e dei conflitti, segue come un indicatore tragico l’impossibilità individuale di sostenere da soli un sistema che stritola e annienta ciò che è disutile, obsoleto. La novità vera di questi fenomeni risiede in questo punto: i singoli sono stati lasciati soli a fronteggiare le fluttuazioni del mercato e i saliscendi delle crisi economiche, strappando ogni legame di solidarietà e di unità con gli altri, ritenendolo inutile e diseconomico.

Un’altra riflessione riguarda la capacità da parte delle scienze sociali di rispondere con categorie adeguate alle sfide che simili eventi portano alle consuete discussioni sui legami sociali, sulla rappresentatività delle istituzioni, sulla capacità di gestione dei conflitti; in presenza di un aumento di scala dei conflitti e delle crisi, ed anche, a nostro avviso, di una loro presentazione in nuove forme, stante l’incapacità ormai acclarata degli Stati-Nazione e delle forze sociali organizzate, quali sono i possibili correttivi di un sistema che in alcuni suoi automatismi di funzionamento ormai giunge a mettere a rischio le vite individuali?

Quanto al fenomeno dei suicidi, nell’ambito delle scienze sociali, si è cercato di andare oltre il senso comune che interpreta il suicidio come un fatto patologico individuale, dovuto alla depressione o all’angoscia.
Già E. Durkheim, nel suo celebre saggio sul suicidio (3) , aveva efficacemente dimostrato che esso trova la sua spiegazione in un disadattamento dell’individuo rispetto alla società. In quest’ottica, il problema nervoso individuale, è un effetto e non la causa; la predisposizione è, insomma, solo l’evento che separa il singolo dalla comunità ma a rendere conto del suicidio è in realtà il sentimento del vuoto sociale. Durkheim, in sostanza, mette sullo sfondo le spiegazioni del suicidio di tipo psicologico, pur ammettendo che vi possa essere una predisposizione psicologica di certi individui al suicidio, ma la causa principale e determinante del suicidio non è psicologica, bensì sociale. (fine prima parte)

NOTE

1)Analogo fenomeno riguarda anche alcuni imprenditori che si sono tolti la vita perché non riuscivano a far fronte ai loro impegni verso i fornitori e i dipendenti. La novità del fenomeno è tale che non si è ancora trovata una categoria per definire questi fenomeni, né esistono ancora statistiche affidabili e certe. La casistica dovrebbe includere anche i piccoli imprenditori che, per le caratteristiche del tessuto produttivo italiano, presentano delle similitudini con il lavoro dipendente.
2) Vedi nostri interventi su LPM n°50 e n°77.
3) Émile Durkheim, Le Suicidie. Étude de Sociologie”, 1897.Trad. “Sociologia del suicidio”, Newton Compton, Roma,1974. Vedi anche M. Halbwachs, Les causes du suicide, Paris, PUF, 2002. Diverso è il caso della “fabbrica dei suicidi” in Cina. In quella fabbrica si ricorreva al suicidio per l’impossibilità di sostenere i ritmi di produzione. Vedi http://www.corriere.it/economia/10_agosto_20/ipadcity-assunzioni-di-massa-sideri_ab23c682-ac28-11df-9663-00144f02aabe.shtml.


Tratto da Rivista Lavoro e Post Mercato n° 94

sabato 15 gennaio 2011

Firmiamo l'appello della FIOM CGIL

Firmiamo l'appello della Fiom Cgil.

Questo il testo dell'appello:

"Abbiamo convocato lo sciopero generale dei metalmeccanici per il 28 gennaio; è una tappa fondamentale per la riconquista del Contratto Nazionale e la salvaguardia dei diritti nei luoghi di lavoro.
La scelta compiuta dalla Fiat alle Carrozzerie di Mirafiori e a Pomigliano D’Arco è un atto antisindacale, autoritario e antidemocratico senza precedenti nella storia delle relazioni sindacali del nostro paese dal dopoguerra.

È un attacco ai principi e ai valori della Costituzione Italiana e alla democrazia perché calpesta la libertà dei lavoratori e delle lavoratrici di decidere a quale sindacato aderire per difendere collettivamente i propri diritti e di eleggere i propri rappresentanti in azienda.

Chi non firma scompare e chi firma diventa un sindacato aziendale e corporativo guardiano delle scelte imposte dalla Fiat. Si annullano il Contratto Nazionale di Lavoro e peggiorano le condizioni di fabbrica, si aumenta lo sfruttamento e l’orario di lavoro, si lede ogni diritto di sciopero e si riduce la retribuzione a chi si ammala cancellando così in colpo solo anni di lotte e di conquiste.

Il ricatto di Marchionne è coerente con la distruzione della legislazione del lavoro in atto che vuol rendere tutti soli e precari; è la stessa logica regressiva messa in pratica dal Governo con l’attacco al diritto allo studio e alla ricerca attuato attraverso l’approvazione del Ddl Gelmini e il taglio ai fondi per l’informazione e la cultura. Si mettono così sotto scacco principi democratici di convivenza civile fondamentali.

La Fiom considera il lavoro un bene comune e per questo il 16 ottobre dopo il ricatto/referendum illegittimo imposto dalla Fiat a Pomigliano ha dato vita a una grande manifestazione, aperta a tutti coloro che sono impegnati nella difesa di diritti e libertà costituzionali inviolabili.

Lo sciopero generale proclamato per il 28 gennaio della categoria e le manifestazioni dopo il ricatto/referendum di Mirafiori hanno lo stesso obiettivo: come ha dimostrato l’introduzione delle deroghe nel Contratto Nazionale dei metalmeccanici firmato da Federmeccanica e le altre organizzazioni sindacali, quando si ledono diritti fondamentali la ferita non si circoscrive ma travolge progressivamente tutto il mondo del lavoro.

La Fiom è impegnata a sostenere il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro senza deroghe, a difendere la legalità, la democrazia e la libertà di rappresentanza sindacale, a combattere la precarietà e il dominio del mercato che divorano la vita delle persone e compromettono la coesione sociale e il futuro del paese.

Chiediamo a tutte le persone, le associazioni e i movimenti che condividono queste ragioni di sostenere la lotta dei metalmeccanici e di firmare questo nostro appello."


Vai al sito: http://www.fiom.cgil.it/

sabato 8 gennaio 2011

Una critica marxista alla teoria della decrescita

Metto un saggio interessante di John Bellamy Foster, professore di sociologia all’Università dell’Oregon, editorialista di Monthly Review e autore di un gran numero di libri su marxismo ed ecologia.

(Da Senza soste.it)

Decrescere o morire?



Nel paragrafo introduttivo del suo libro del 2009 Storms of My Grandchildren, James Hansen, principale climatologo USA e massima autorità scientifica mondiale sul cambiamento climatico, ha dichiarato: ‘Il Pianeta Terra, il creato, il mondo in cui la civiltà si è sviluppata, il mondo con i modelli climatici che conosciamo e linee costiere stabili, è in imminente pericolo... La sorprendente conclusione è che il prolungato sfruttamento di tutti i carburanti fossili sulla Terra minaccia non solo gli altri milioni di specie sul pianeta ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa -e i tempi sono più brevi di quanto crediamo’.

Facendo questa dichiarazione, comunque, Hansen stava parlando solo di una parte della crisi ambientale globale che attualmente minaccia il pianeta: precisamente la crisi climatica. Di recente, scienziati di primo piano (compreso Hansen) hanno proposto nove punti-limite planetari, che demarcano lo spazio operativo sicuro per il pianeta. Tre di questi punti-limite (cambiamento climatico, biodiversità e ciclo nitrogeno) sono già stati oltrepassati, mentre altri, come la disponibilità di acqua pulita e l’acidificazione degli oceani, sono falle planetarie emergenti. In termini ecologici, l’economia è ormai cresciuta a una dimensione e un’invasività tali che sta sia travolgendo i punti-limite planetari che facendo a pezzi i cicli biogeochimici del pianeta.

Quindi, quasi quarant’anni dopo che il Club di Roma ha sollevato il tema dei ‘limiti alla crescita’, la crescita economica idolatrata dalla moderna società sta nuovamente affrontando una sfida formidabile. Quella che è nota come ‘economia della decrescita’, associata in particolare con il lavoro di Serge Latouche, è emersa come un’importante movimento intellettuale europeo con la storica conferenza su ‘decrescita economica per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale’ a Parigi nel 2008, e ha da allora ispirato una rinascita del pensiero verde radicale, così come si è articolato nella ‘Dichiarazione sulla Decrescita’ a Barcellona nel 2010.

Ironicamente la rapida ascesa della decrescita (décroissance in francese) come teoria ha coinciso negli ultimi tre anni con la ricomparsa della crisi economica e della stagnazione, che in queste dimensioni non si vedevano dagli anni ‘30. La teoria della decrescita ci obbliga perciò a chiederci se la decrescita è praticabile nella società capitalista “crescere o morire”, e se non lo è, cosa ci dice sulla transizione a una società nuova.

Secondo il sito web del progetto europeo per la decrescita (www.degrowth.eu), ‘La decrescita comporta l’idea di una volontaria riduzione delle dimensioni del sistema economico, che implica una riduzione del PIL’. ‘Volontaria’ qui mette l’accento su soluzioni volontaristiche, anche se non individualistiche e improvvisate nella concezione europea come nel caso del movimento per la ‘sobrietà volontaria’ negli USA, dove gli individui, (di solito agiati) scelgono semplicemente di uscire dal modello di mercato ad alti consumi. Per Latouche il concetto di decrescita implica un importante cambiamento sociale: un passaggio radicale dalla crescita come obiettivo principale dell’economia moderna al suo opposto (contrazione, riduzione).

Falsa promessa

Una premessa fondamentale di questo movimento è che di fronte all’emergenza economica planetaria la promessa della tecnologia verde si è dimostrata falsa. Questo si può attribuire al ‘paradosso di Jevons’, secondo il quale una maggiore efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse non porta alla conservazione ma ad una maggiore crescita economica, e quindi a una maggior pressione sull’ambiente.

L’inevitabile conclusione -condivisa da un’ampia schiera di pensatori politico-economici e ambientali, non solo quelli collegati direttamente al progetto europeo per la decrescita- è che ci vuole un drastico cambiamento nelle tendenze economiche in atto a partire dalla rivoluzione industriale. Come l’economista marxista Paul Sweezy scriveva più di vent’anni fa: ‘Dal momento che non c’è modo di aumentare la capacità dell’ambiente di sopportare il carico [economico e demografico] che gli viene imposto, ne consegue che la correzione dev’essere operata interamente sull’altro lato dell’equazione. E visto che lo squilibrio ha già raggiunto proporzioni pericolose, ne consegue inoltre che per raggiungere l’obiettivo ciò che è essenziale è un’inversione di rotta, non solo un rallentamento, delle tendenze fondamentali degli ultimi secoli’.

Dato che i Paesi ricchi sono già caratterizzati dal sovraccarico ecologico, appare sempre più evidente che non c’è alternativa, come sottolineava Sweezy, a un’inversione di tendenza alle pressioni sull’ambiente da parte dell’economia. Questo è rafforzato dagli argomenti dell’economista ecologico Herman Daly, che insiste da molto tempo sul bisogno di un’economia a crescita zero. Daly traccia la sua prospettiva a partire dalla famosa discussione di John Stuart Mill sullo ‘stato stazionario’ nei suoi Principi di Economia Politica, dove sosteneva che se l’espansione economica si fosse arrestata (come si aspettavano gli economisti classici), lo scopo economico della società avrebbe potuto essere deviato verso gli aspetti qualitativi dell’esistenza, piuttosto che su un’espansione meramente quantitativa.

Un secolo dopo Mill, Lewis Mumford insisteva nel suo Condition of Man, pubblicato per la prima volta nel 1944, che non solo c’era uno stato stazionario, nel senso in cui lo intendeva Mill, ecologicamente necessario, ma che questo doveva essere legato a una concezione di ‘comunismo elementare... applicando all’intera comunità i criteri della famiglia’ e distribuendo ‘le risorse sulla base del bisogno’ (una visione mutuata da Marx).

Oggi si pensa che questo ricorso al bisogno per fermare la crescita economica nelle economie sovrasviluppate, e anche per restringere queste economie, abbia le sue radici teoriche in The Entropy Law and the Economic Process [La Legge dell’Entropia e il Processo economico] di Nicholas Georgescu-Roegen, che mise le basi della moderna ecologia sociale.

La decrescita come tale non viene vista neppure dai suoi proponenti come una soluzione stabile, ma come uno strumento per ridurre le dimensioni dell’economia a un livello di output che possa essere mantenuto indefinitamente in uno stato stazionario. Questo può comportare la restrizione delle economie ricche di almeno un terzo rispetto ai livelli attuali tramite un processo che porterebbe a investimenti negativi (per cui non solo cesserebbe l’investimento netto ma neanche tutto il capitale sociale esaurito verrebbe rimpiazzato).

Un’economia a stato stazionario, invece, comporterebbe il rinnovo degli investimenti ma azzererebbe il nuovo investimento netto. Come spiega Daly ‘un’economia a stato stazionario’ è ‘un’economia con stock costanti di risorse umane e mezzi di produzione, mantenuti ai livelli sufficienti che si desiderano tramite un basso tasso di “prestazioni” di manutenzione, cioè tramite i flussi più bassi possibile di materia ed energia’.

Viziato da contraddizioni

È superfluo dire che nessuna di queste cose potrebbe facilmente realizzarsi nell’ambito dell’esistenza dell’attuale economia capitalista. In particolare il lavoro di Latouche, che può essere considerato esemplare del progetto europeo per la decrescita, è viziato da contraddizioni, che derivano non dalla concezione della decrescita in sé, ma dal suo tentativo di svicolare dalla questione del capitalismo. Questo si può notare nel suo articolo del 2006, The Globe Downshifted, dove argomenta in modo contorto:

‘Per alcuni nell’estrema sinistra la risposta tipica è che il capitalismo è il problema, cosa che ci lascia nell’ansia impotente di muoverci verso una società migliore. La contrazione economica è compatibile con il capitalismo? Questa è una domanda chiave, ma una domanda a cui è importante rispondere senza ricorrere a dogmi, se si vogliono capire i veri ostacoli...

‘Il capitalismo eco-compatibile è concepibile in teoria, ma irrealistico nella pratica. Il capitalismo richiederebbe un alto livello di regolazione per gestire la riduzione del nostro impatto ecologico. Il sistema di mercato, dominato dalle enormi corporazioni multinazionali, non si adatterà mai di sua spontanea volontà al modello virtuoso dell’eco-capitalismo...

‘I meccanismi di contrappeso tra i poteri, così come sono esistiti nella regolazione keynesiana-fordista dell’era socialdemocratica, sono concepibili e desiderabili. Ma la lotta di classe sembra essersi interrotta. Il problema è: il capitale ha vinto...

‘Una società basata sulla contrazione economica non può esistere sotto il capitalismo. Ma il capitalismo è una parola di una semplicità ingannevole per una storia lunga e complessa. Liberarsi dei capitalisti e mettere al bando il lavoro salariato, la moneta e la proprietà privata dei mezzi di produzione farebbe sprofondare la società nel caos. Porterebbe il terrorismo su grande scala... Abbiamo bisogno di trovare un’altra via d’uscita dallo sviluppo, dall’economicismo (come convinzione della supremazia delle cause e dei fattori economici) e dalla crescita: che non significhi abbandonare le istituzioni sociali che sono state annesse dall’economia (moneta, mercati, anche i salari) ma inserirle in una nuova cornice secondo differenti principi’.

In questo stile apparentemente pragmatico, non-dogmatico, Latouche cerca di tracciare una distinzione tra il progetto della decrescita e la critica socialista del capitalismo: (1) dichiarando che ‘il socialismo eco-compatibile è concepibile’, almeno in teoria; (2) dicendo che gli approcci keynesiani e cosiddetti ‘fordisti’ alla regolazione, associati alla socialdemocrazia, potrebbero -se ancora praticabili- addomesticare il capitalismo, ricacciandolo sul ‘virtuoso sentiero dell’eco-capitalismo’; e (3) insistendo sul fatto che la decrescita non ha lo scopo di rompere la dialettica capitale-lavoro salariato o interferire con la proprietà privata dei mezzi di produzione. In altri scritti, Latouche chiarisce che consideraa il progetto della decrescita compatibile con la continuità della valorizzazione (per es. un aumento dei rapporti di valore capitalistici) e che nulla di ciò che va verso l’eguaglianza sostanziale è considerato fuori portata.

Ciò che Latouche sostiene più esplicitamente in relazione al problema ambientale è l’adozione a ciò che definisce ‘misure riformiste, i cui principi [di economia dello stato sociale] sono stati tracciati all’inizio del XX secolo dall’economista liberale Arthur Cecil Pigou [e] porterebbero a una rivoluzione’ internalizzando le esteriorità ambientali dell’economia capitalista. Ironicamente, la sua posizione è identica a quella dell’economia ambientale neoclassica e diversa dalla più radicale critica spesso sostenuta dall’economia ambientale, nella quale viene duramente attaccata l’idea che i costi ambientali possano essere semplicemente internalizzati nell’attuale economia capitalista.

Implicazioni di classe

‘La stessa crisi ecologica è descritta’ nell’attuale progetto per la decrescita, come ha osservato criticamente il filosofo greco Takis Fotopoulos, ‘nei termini di un problema comune che “l’umanità” affronta a causa del degrado ambientale, senza citare per niente le diverse implicazioni di classe di questa crisi, per es. il fatto che le implicazioni sociali della crisi ecologica sono pagate soprattutto in termini di distruzioni di vite e qualità della vita dai gruppi sociali inferiori -in Bangladesh come a New Orleans- e molto meno da parte delle élites e delle classi medie’.

Dato che si prende a bersaglio il concetto astratto della crescita economica piuttosto che la realtà concreta dell’accumulazione capitalistica, la teoria della decrescita -nell’influente forma articolata da Latouche e altri- trova naturalmente difficile affrontare l’odierna realtà di crisi economica/stagnazione, che ha prodotto i più alti livelli di disoccupazione e devastazione economica dagli anni ’30 ad oggi.

Latouche stesso ha scritto nel 2003 che ‘non ci sarebbe niente di peggio di una crescita economica senza crescita’. Ma di fronte ad un’economia capitalista chiusa in una profonda crisi strutturale, gli analisti europei della decrescita hanno poco da dire. La Dichiarazione sulla Decrescita, scritta a Barcellona nel Marzo 2010, diceva semplicemente: ‘Le cosiddette misure anti-crisi che cercano di stimolare la crescita economica, a lunga scadenza peggioreranno le disuguaglianze e la situazione ambientale’. Senza aspirare né a difendere la crescita, né a rompere con le istituzioni del capitale -neanche, quindi, a schierarsi con i lavoratori, il cui bisogno più grande oggi è l’occupazione- i principali teorici della decrescita rimangono stranamente silenziosi di fronte alla più grande crisi economica dopo la Grande Depressione.

A conferma di questo, di fronte all’‘attuale decrescita’ nella Grande Recessione del 2008-2009 e al bisogno di una transizione alla ‘decrescita sostenibile’, la nota economista ecologica Joan Martinez-Alier, che ha di recente abbracciato la bandiera della decrescita, ha offerto il palliativo di ‘un keynesianesimo verde di breve termine o un new deal verde’. Lo scopo, ha dichiarato, era quello di promuovere una crescita economica e ‘contenere l’aumento della disoccupazione’ tramite l’investimento pubblico in tecnologia verde e infrastrutture.

Questo è stato considerato compatibile con il progetto della decrescita in quanto questo keynesianesimo verde ‘non diventava una dottrina della crescita economica continua’. Ma come i lavoratori potessero collocarsi in questa strategia largamente tecnologica (fondata sulle idee di efficienza energetica che gli analisti della decrescita generalmente rifiutano) rimaneva incerto.

Infatti, piuttosto che affrontare direttamente il problema della disoccupazione -con un programma radicale che darebbe alla gente posti di lavoro diretti alla creazione di genuini valori d’uso in modi compatibili con una società più sostenibile- i teorici della decrescita preferiscono enfatizzare un orario di lavoro ridotto che separi ‘il diritto a ricevere una remunerazione dal fatto di essere occupato’ (attraverso la promozione di un reddito universale di base). Si pensa che questi cambiamenti dovrebbero permettere al sistema economico di restringersi e allo stesso tempo garantire un reddito alle famiglie -mantenendo nel frattempo intatta la struttura basilare dell’accumulazione del capitale e del mercato.

Ma guardando da un punto di vista più critico è difficile considerare l’attuazione di un orario di lavoro ridotto e di un reddito di base garantiti nelle dimensioni ipotizzate se non come elementi di una transizione a una società post-capitalista (quindi socialista). Come diceva Marx, la regola per il capitale è: ‘Accumulare, accumulare! Così dicono Mosé e i profeti!’

Per rompere con le basi istituzionali della ‘legge del valore’ del capitalismo o mettere in discussione la struttura basilare su cui si fonda lo sfruttamento del lavoro (che sarebbero entrambe minacciate da una drastica riduzione dell’orario di lavoro e da un reddito sostanziale garantito) si devono affrontare questioni più ampie di cambiamento di sistema -cosa di cui i principali teorici della decrescita non sembrano disponibili a rendersi conto per il momento. Inoltre un approccio significativo alla creazione di una nuova società dovrebbe assicurare non solo reddito e tempo libero, ma provvedere anche al bisogno umano di un lavoro utile, creativo e non alienato.

Decrescita e Sud

Ancora più problematico è l’atteggiamento dell’attuale teoria sulla decrescita verso il Sud globale. ‘La decrescita’, scrive Latouche, ‘deve applicarsi al Sud quanto al Nord se vogliamo che vi sia la possibilità di impedire alle società del Sud di percorrere il vicolo cieco dell’economia della crescita. Finché siamo in tempo, non dovrebbero puntare sullo sviluppo ma sull’uscita dal meccanismo -rimuovendo gli ostacoli che gli impediscono di svilupparsi in modo diverso... I Paesi del Sud hanno bisogno di uscire dalla loro dipendenza economica e culturale dal Nord e riscoprire le loro proprie storie’.

Mancando di un’adeguata teoria dell’imperialismo, e non riuscendo ad affrontare il profondo abisso di disuguaglianza che separa le nazioni più ricche da quelle più povere, Latouche allora riduce l’immensa complessità del problema del sottosviluppo a un fatto di autonomia culturale e soggezione al feticcio occidentalizzato della crescita.

Si può fare un confronto tra questo e la risposta molto più ragionata di Herman Daly, che scrive: ‘È un’assoluta perdita di tempo predicare moralisticamente le dottrine sullo stato stazionario ai Paesi sottosviluppati prima che i Paesi sovrasviluppati abbiano preso provvedimenti per ridurre la loro stessa crescita demografica o la crescita del loro consumo procapite di risorse. Quindi il paradigma dello stato stazionario dev’essere prima essere applicato neli Paesi sovrasviluppati... Una delle maggiori forze necessarie a spingere i Paesi sovrasviluppati verso il... paradigma dello stato stazionario dev’essere l’attacco del terzo mondo al loro sovraconsumo... Il punto di partenza nell’economia dello sviluppo dovrebbe essere il “teorema dell’impossibilità”... che uno stile di vita USA con un’economia ad alto consumo di massa per un mondo di quattro miliardi di persone [la cifra era questa nel 1975] è impossibile, e anche se si ottenesse qualche miracolo, questo avrebbe certamente vita breve.’

La nozione che la decrescita come concezione possa essere applicata essenzialmente allo stesso modo sia ai Paesi ricchi del centro che ai Paesi poveri della periferia rappresenta un errore tipico causato dalla semplice imposizione di un’astrazione (la decrescita) a un contesto nel quale è sostanzialmente privo di significato, come ad Haiti, nel Mali, o per molti versi anche in India. Il vero problema nella periferia globale è quello di superare i legami imperiali, trasformare l’esistente modo di produzione e creare possibilità produttive ugualitarie-sostenibili.

È chiaro che molti Paesi del Sud con redditi procapite molto bassi non possono permettersi la decrescita ma hanno bisogno di un tipo di sviluppo sostenibile, diretto ai bisogni reali come l’accesso all’acqua, al cibo, all’assistenza sanitaria, all’educazione, ecc. Questo richiede che nella struttura sociale ci si allontani radicalmente dai rapporti di produzione del capitalismo/imperialismo. È significativo che negli articoli largamente diffusi di Latouche non vi sia praticamente nessuna citazione di quei Paesi, come Cuba, Venezuela e Bolivia, dove sono in corso lotte concrete per spostare le priorità sociali dal profitto ai bisogni sociali. Cuba, come ha indicato il Living Planet Report, è il solo Paese del mondo che ha un alto sviluppo umano e un impatto ecologico sostenibile.

Co-rivoluzione

È innegabile che oggi la crescita economica sia il principale fattore del degrado ambientale planetario. Ma incentrare la propria intera analisi sul rovesciamento di un’astratta ‘società della crescita’ significa perdere ogni prospettiva storica e buttar via secoli di scienza sociale. Il valore in termini ecologici della concezione della decrescita è solo quello di apportare un genuino significato come parte di una critica dell’accumulazione capitalistica, e parte della transizione a un ordinamento sostenibile, egualitario, comunitario, -nel quale i produttori associati governino la relazione metabolica tra la natura e la società nell’interesse delle generazioni successive e della Terra stessa (socialismo/comunismo così come Marx lo definiva).

Quello di cui si ha bisogno è un ‘movimento co-rivoluzionario’, per usare il pregnante termine di David Harvey, che metterà insieme la critica tradizionale al capitale della classe lavoratrice, la critica dell’imperialismo, le critiche del patriarcato e del razzismo, e la critica della crescita ecologicamente distruttiva (insieme ai relativi movimenti di massa).

Nella crisi generalizzata dei nostri tempi, un movimento così ampio, co-rivoluzionario, è concepibile. Qui l’obiettivo sarebbe la creazione di un nuovo ordine nel quale la valorizzazione del capitale non governerebbe più la società.

‘Il socialismo è utile’, scriveva E F Schumacher in Piccolo è Bello, proprio per la ‘possibilità che crea per il superamento della religione dell’economia’, cioè, ‘la moderna tendenza verso la quantificazione totale a spese dell’apprezzamento delle differenze qualitative’. In un ordinamento sostenibile, le persone delle economie più ricche (specialmente quelle degli strati più alti) dovrebbero imparare a vivere con ‘meno’ in termini di prodotti per abbassare il peso procapite sull’ambiente. Allo stesso tempo, la soddisfazione dei genuini bisogni umani e la richiesta di una sostenibilità ecologica potrebbero diventare i principi costitutivi di un nuovo ordine più comunitario mirato alla reciprocità umana, che consenta lo sviluppo qualitativo, e anche la pienezza.

Questa strategia può assicurare alla gente un lavoro che abbia un valore, non dominato dal cieco produttivismo. La lotta ecologica, intesa in questi termini, deve puntare non solo alla decrescita in astratto ma più concretamente alla dis/accumulazione -nel senso di un processo di uscita da un sistema alimentato dall’accumulazione senza fine di capitale. Al suo posto dovrebbe mettere una nuova società co-rivoluzionaria, dedicata ai bisogni comuni dell’umanità e della Terra.

Fonte: http://www.redpepper.org.uk/degrow-or-die/