domenica 15 settembre 2013

La lotta di classe ci sarà ancora?

Incollo un'intervista di Repubblica a Mario Tronti del 5 settembre 2013.
Il video non è inerente all'intervista ma è un modo per ascoltare il prof. Tronti.


Intervista a Mario Tronti: 
"La lotta di classe c'è ancora"
"Non facciamoci distrarre". Parla il fondatore dei "Quaderni Rossi" e dell'operaismo teorico che oggi si definisce "intellettuale comunista senza un partito comunista"
di MICHELE SMARGIASSI


ROMA - Dalla finestra dello studio del senatore Mario Tronti si sbircia il Borromini: la sua cupola di Sant'Ivo, tutta una controcurva, è un'antinomia barocca, una stravaganza, eppure sta in piedi. Un po' come la sinistra. "Strana e affascinante", la osserva appoggiato al davanzale il filosofo, teorico dell'operaismo, che a 82 anni è la personificazione del pensiero critico della sinistra italiana. Di sé ha scritto, autoironico: "Sono anch'io un'antichità del moderno", non si vergogna della sua nostalgia per il "magnifico Novecento", ma osserva le controcurve del nuovo millennio.

Ha mai detto di se stesso "sono un uomo di sinistra"? Qualcosa mi fa supporre di no...
"Ha indovinato. Non lo direi mai, mi sembra banale. Penso che "sinistra" sia qualcosa di cui c'è necessità forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora. Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza della parola".

È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l'avrà pure...
"Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso non ne ho un'altra. La vado cercando".



Ipotesi?
"In autunno uscirà un mio libro il cui saggio finale, inedito, si intitola
 La sinistra è l'oltre. Ecco, la sinistra dovrebbe coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire una narrazione, ma io preferisco dire visione, di quel che può esistere dopo la forma sociale e politica del mondo che abbiamo".

Non è sempre stata questo? Un movimento che "abolisce lo stato di cose presente"?
"A questo si erano dati nomi più forti, socialismo, comunismo, e più efficaci, perché dicevano immediatamente anche all'uomo più semplice che si andava verso qualcosa al di là dell'orizzonte".

Mentre sinistra è uno "stato in luogo"?
"Di certo non ha la stessa capacità di evocazione, serve magari a criticare il presente ma non contiene il futuro. È rimasta in campo, ma non è riuscita a creare quella grande appartenenza umana, antropologica, che le vecchie parole suggerivano. Forse "sinistra" riflette proprio questo passaggio dalla prospettiva all'autodifesa, dal movimento alla trincea".

Ma si diventa di sinistra? O ci si nasce?
"Ognuno ha la propria risposta. Non amo parlare di me, ma posso dirle che nel mio caso è stato quasi un fatto naturale, da giovanissimo, diventare comunista. Perché quella è stata la mia parola, subito. Ha contato molto l'estrazione popolare della mia famiglia, mio padre comunista col quadro di Stalin sopra il letto, mi sono immesso in quell'orizzonte in modo naturale, ovviamente da lì è partito un percorso lungo e critico...".

Fino alla dramma del crollo. Lei ha scritto: fu uno strabismo, credevamo fosse il rosso dell'alba, era quello del tramonto...
"Ma prima di questo avevamo già declinato la categoria del disincanto. Quando sono caduti nome e forma del partito, ricordo bene che in quel travaglio mi sono affidato a una scelta: rimarrò un intellettuale comunista in qualunque partito mi troverò a militare. E così ho fatto. Resto in quest'area, con la mia identità".

Una volta non era concepibile essere comunisti senza il partito.
"È diventata una scelta libera dalle strutture. Io mi sono iscritto presto nel filone del realismo politico, lungo la linea anti-ideologica Machiavelli Hobbes Marx Weber Schmitt... Essere comunista in questa linea non è facile, ma le grandi idee vanno portate dentro la storia in atto. Tra la visione e la politica c'è la mediazione della pratica, io devo tener conto di quel che c'è, e di come c'è".

Lei ha scritto anche: basta con gli aggettivi, torniamo ai sostantivi. Cosa voleva dire?
"La parola sinistra è stata aggettivata tantissimo. Questo capita alle parole deboli. La differenza tra socialismo e comunismo è che il primo a un certo punto sentì il bisogno di aggiungere "democratico". Il comunismo non lo fece mai. Non so se sia stato un bene o un male, forse è stata una delle cause del suo fallimento".
 

Ma quale strada porta all'oltre? Fare qualcosa di sinistra oggi sembra ridursi a una deontologia civica di onestà, rispetto...
"Da un po' di tempo dico che si è aperta nel mondo contemporaneo una grande questione antropologica: il senso dell'essere qui, in un mondo allargato e transitorio, in questo disagio di civiltà che non è solo politico e sociale o economico. Come essere donne e uomini in questo mondo? La domanda vera è questa. Rispondo così: è importante avere un punto di vista, partire da una posizione. Che può essere soltanto parziale. In una società profondamente divisa non è possibile essere d'accordo con tutti. Certo una volta era più semplice, le parti erano chiare e distinte, erano le classi. La parte ora te la devi andare a cercare".

E come si riconosce?
"Per essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio. Lunga storia, ho detto. Abusivamente ridotta a pochi decenni, quelli del socialismo realizzato, mentre viene dalla rivoluzione industriale, si diversifica nell'Ottocento grande laboratorio, affronta nel Novecento la sfida della rivoluzione...".

La perde...
"Quella storia del movimento operaio ovviamente si è conclusa, ma la storia resta storia. La Spd non è il mio orizzonte politico preferito, ma ha appena celebrato senza imbarazzi i suoi 150 anni di vita. Ecco, quello è un partito! Non può essere partito quello che azzera tutto ogni volta che viene convinto a farlo dalla contingenza politica".
 

Cosa resta di quella storia?
"Una parzialità. La parte del popolo attorno a un concetto che non è sparito con la fine del movimento operaio: il lavoro. Una sinistra del futuro non può che essere la sinistra del lavoro come è oggi, complicato frantumato in figure anche contraddittorie, il dipendente l'autonomo il precario, il lavoro di conoscenza, quello immateriale... La sinistra dovrebbe unificare questo multiverso in un'opzione politica. Ma essendo anche un teorico del pessimismo antropologico, la vedo difficile".

La politica al tramonto. È il titolo di un suo libro recente.
"Io teorizzo pessimisticamente il tempo della fine. Viviamo in un tempo della fine, lo dico senza emozioni apocalittiche che non mi appartengono. Ma è forse anche la fine del grande capitalismo e delle sue ideologie. Vede, la maledizione della sinistra dopo il Pci è stata non avere avversari di rango. Per essere grandi ci vogliono avversari grandi. Altrimenti, per tornare alla sua domanda sulla deontologia civica, si cade nella deriva eticista".

Può spiegare meglio? 
"La cosiddetta sinistra dei diritti, maggioritaria oggi. Quella che si limita a difendere un certo elenco di diritti civili, presentandoli come valori generali. Finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l'immoralità e ti senti a posto dentro questa società".

La rivolta contro la "casta" sembra verbalmente forte e gratificante.
"La famosa antipolitica... La sinistra non ha messo a fuoco il pericolo vero, la sua violenza, il suo obiettivo vero, che è deviare lo scontento popolare su una base che per il potere è sicura perché non minaccia davvero le basi della diseguaglianza. Se non trovi lavoro è perché i ministri hanno le auto blu?".
 

Un'arma di distrazione di massa?
"Un disorientamento politico di massa. Le grandi classi non ci sono più, il conflitto frontale non c'è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di classe c'è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro". 

domenica 30 settembre 2012

Analfabetismo tra lavoro e cittadinanza (seconda ed ultima parte)

Nella prima parte di questo intervento (vedi LPM n°110), abbiamo visto le due dimensioni dell’analfabetismo, quella relativa alla marginalità economica e quella relativa all’esercizio pieno della cittadinanza.

E’ chiaro che non possiamo, in questa sede, occuparci di politiche scolastiche, che richiederebbero un lavoro di lunga lena e con criteri metodologici rigorosi. Forse si può avanzare qualche riflessione, speriamo non estemporanea, sullo stato e sulle prospettive della nostra scuola e della cultura, oltre le solite giaculatorie del mancato contatto tra mondo della scuola e mondo del lavoro.

- In che modo le riforme scolastiche che sono state proposte negli scorsi anni hanno agito sui livelli di alfabetizzazione scolastica e di cittadinanza?
Ci sembra che il livello su cui si è operato, in sostanza, sia quello della riorganizzazione scolastica, con l’aggiunta di nuovi indirizzi e di nuove materie di studio, senza toccare l’impianto elitario gentiliano della supremazia della cultura umanistica classica. Se non si chiarirà in modo adeguato il rapporto tra cultura umanistica, cultura scientifica e cultura tecnica, difficilmente si sposteranno le leve per ridare ossigeno ad un sistema scolastico che tra tagli e riorganizzazioni mal digerite rischia di deflagrare.

Tra i tanti c’è almeno un altro punto da chiarire e riguarda il ruolo e il peso assegnato al lavoro manuale, dopo decenni di reiterazione dell’idea di inferiorità del lavoro manuale, anche qui riprendendo un leit motiv secolare, con la distinzione tra arti liberali e arti meccaniche. In un recente saggio, R. Sennett ha proposto una riscoperta dell’uomo artigiano, in grado di recuperare un senso del lavoro integrale, per superare da un lato la parcellizzazione dei lavori e dall’altro la dicotomia tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. (5) Ma qui siamo su un versante strettamente culturale, in cui i cambiamenti di fondo si svolgono con lentezza e in modi spesso poco visibili e misurabili.

- In quale modo il mondo del lavoro, nel suo complesso, invia i suoi input e le sue richieste al mondo scolastico e universitario? Nei consessi di categoria, si ripetono ormai da decenni le lamentazioni sulla scarsa spendibilità dei giovani diplomati e laureati nelle realtà produttive. E se è vero che difficilmente un giovane fresco di laurea o con la maturità in tasca sia capace di inserirsi immediatamente nelle realtà lavorative, è altrettanto vero che gli investimenti progettuali, formativi e finanziari per avvicinare i due mondi sono davvero pochi e riscuotono lo scarso interesse degli attori che nei convegni si lamentano invariabilmente della scarsa preparazione professionale dei giovani. Non sembra che la pratica dello stage, così generosamente promossa in molte attività economiche porti altri frutti se non l’uso qualche volta spregiudicato di energie e di talenti per coprire i buchi di piante organiche troppo esigue.(6)
Sarebbe interessante conoscere i tassi di impiego finale a tempo indeterminato dei giovani stagisti che, magari a prezzo di grandi sacrifici, hanno partecipato a uno o più stage. Una qualche riflessione andrebbe fatta anche sul tipo di tessuto produttivo del nostro Paese, spesso basato su piccole imprese con un limitato numero di addetti a fronte di un numero limitato di grandi aziende. La ricerca e l’innovazione in ambito privato sembrano un refrain da convegno più che delle realtà consolidate e praticate, naturalmente con le dovute eccezioni. E qui veniamo al dolente tasto del costo della formazione.

- Qual è il costo che si è disposti a sostenere per avere un buon sistema scolastico? Sarebbe oneroso ripercorrere qui le tendenze alla riduzione delle spese pubbliche a causa dei processi di competizione sistemica tra Stati e sistemi economici (globalizzazione). Diamole per chiarite, anche se le discussioni sono ancora aperte. Normalmente, gli argomenti portati per sostenere sistemi scolastici efficienti con una pressione fiscale adeguata ruotano intorno alla utilità di avere un buon complesso di istruzione e di formazione per il beneficio del sistema produttivo. Ha una sua logica pensare che la scuola e l’Università debbano essere efficienti per garantire il ricambio dei processi e dei prodotti in una sfida d’innovazione e di competizione con altri Sistemi-Paese. Ma siamo sicuri che il declino e l’obsolescenza dei sistemi economici derivino solo dal ruolo marginale assegnato nei budget pubblici alla ricerca e ai fondi destinati alla cultura, nonostante giustamente si lamenti la pericolosità di scelte del genere? Ripetiamo la domanda: quale livello di ricchezza si è disposti ad impiegare per avere un sistema scolastico adeguato? La riproduzione dei mezzi di produzione, ci si perdoni il bisticcio di parole, passa certamente per la centralità dell’istruzione e della ricerca, ma non si deve dimenticare che con lo stesso strumento passa la riproduzione della cittadinanza e, in ultima istanza, della qualità della democrazia. 

L’analfabetismo va combattuto non solo perché contiene al suo interno capitale umano scarsamente qualificato e inadatto alle sfide planetarie; andrebbe combattuto anche per sostenere ed incrementare una cittadinanza consapevole , informata, critica. Senza di essa, c’è solo il gioco dei capitali, strumentali e umani. E nella competizione estrema i primi ad essere stritolati sono i più deboli, economicamente e culturalmente.

Non vedere questo legame profondo tra formazione, lavoro e cittadinanza è imputabile a disinteresse o a una specifica volontà? A meno che non si voglia un popolo di consumatori e di spettatori, invece che di cittadini. 



NOTE
5) Sennett R., L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008. Così Sennett: “le capacità dell’artigiano di scavare in profondità si situano al polo opposto di una società moderna che preferisce la superficialità, la formazione veloce ed il sapere superficiale.”
6) Ecco un saggio proposto da un’autrice che prima di scrivere questo libro ha fatto ben cinque stage: Voltolina Eleonora, La repubblica degli stagisti. Come non farsi fregare, Laterza, Roma, 2010.


Tratto da Lavoro e Post mercato n° 111

lunedì 27 febbraio 2012

Analfabetismo tra lavoro e cittadinanza




L'analfabetismo, da un punto di vista strettamente economico, ostacola lo sviluppo e l'integrazione e ha un riflesso diretto o indiretto sul livelli di povertà, sui tassi di occupazione e sulle condizioni generali di vita dei singoli e dei sistemi economici.

C’ è poi, nell’analfabetismo, una dimensione non economica, che possiamo definire di esercizio della cittadinanza.

Essa si connota come accesso consapevole alle informazioni che contano e alle scelte, appunto, di cittadinanza: la comprensione dei problemi, la loro complessità, il senso di appartenenza ad una comunità, il complesso dei diritti e dei doveri, la partecipazione alla vita politica e sociale, ecc. Basta richiamare alla memoria la figura di Don Milani e la sua esperienza educativa di Barbiana per comprendere come l’acquisizione delle parole e della conoscenza fosse per lui l’unica possibilità di comprendere il proprio posto nella società e nel mondo. (1)




Se si pongono in relazione l’esclusione sociale e i livelli di scolarità e di alfabetizzazione, i dati che negli ultimi anni ci presentano gli studi dell’OCSE con i famosi studi PISA risultano abbastanza sconfortanti.

Com’è noto, questi test misurano le conoscenze e le competenze degli studenti quindicenni che appartengono a 34 paesi membri dell'OCSE. (2)

Non abbiamo, al momento, altri test disponibili con questa massa di dati, nonostante i test PISA siano stati criticati in modo serio con l’obiezione che sono progettati con il criterio della risoluzione di problemi. I detrattori, e non sono pochi, imputano a questi test un eccesso di pragmatismo e una scarsa attenzione alla conoscenza di base.




Gli ultimi dati usciti, quelli del dicembre 2010, si sono concentrati sull’area della lettura e ne sono emersi risultati preoccupanti.




Secondo questa ricerca, l’Italia, more solito, è in coda tra i paesi più sviluppati.

Nei test Ocse-Pisa 2010 pubblicati a dicembre, infatti, l'Italia fa registrare il 21 per cento di quindicenni "con scarsi risultati in lettura". Tradotto in modo più chiaro, si tratta di adolescenti "in grado di svolgere soltanto gli esercizi di lettura meno complessi come individuare una singola informazione, identificare il tema principale di un testo, o fare un semplice collegamento con la conoscenza di tutti i giorni". Appena il compito diventa più complesso, cominciano le difficoltà.

Insomma uno su cinque, tra i nostri quindicenni, non è in grado di elaborare o di affrontare livelli complessi di lettura e di riorganizzazione delle informazioni e delle conoscenze. (3)

Viene da chiedersi in quale contesto sono inseriti questi adolescenti che fanno così tanta fatica nel maneggiare informazioni complesse.




In un libro-intervista apparso qualche anno fa, e ripubblicato di recente con un’aggiunta, il linguista Tullio De Mauro ha fornito numerosi dati sul fenomeno dell’analfabetismo nel nostro Paese e sull’evoluzione dei sistemi educativi nel corso dei decenni. (4)

Il livello medio dell’istruzione in Italia, in una comparazione con altre nazioni, risulta insoddisfacente : gli analfabeti completi sono più di due milioni, ma ad essi vanno aggiunti quasi quindici milioni di semianalfabeti. Altri quindici milioni di cittadini rischiano di diventarlo, perché le competenze alfabetiche acquisite fra i banchi, se non più esercitate, regrediscono in una misura pari a cinque anni di scuola.

«A un paleo - analfabetismo, eredità del passato», dice De Mauro, «si è cumulato un neo - analfabetismo fisiologico nei paesi industriali e di alto livello consumistico». In Italia possiede il diploma di scuola superiore il 42 per cento della popolazione adulta di fronte a una media europea del 59 per cento. Solo il 9 per cento degli italiani adulti possiede una laurea, di fronte a una media europea del 21 per cento. (continua)




NOTE




1) Così il prete di Barbiana, per convincere i figli degli operai e dei contadini alla frequenza della sua scuola serale:” Voi – diceva – non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttate come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo".

2) Vedi http://www.pisa.oecd.org/pages/0,2987,en_32252351_32235731_1_1_1_1_1,00.html.

3) Paesi come Danimarca, Olanda e Svezia sono molto vicini all'obiettivo del 15 per cento. Mentre in Francia (19,8 per cento), Germania (18,5), Regno Unito (18,4), Spagna (19,6 per cento) e Portogallo (17,6 per cento) le cose vanno meglio che in Italia, che supera la media europea di un punto e mezzo.

4) Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Bari, Laterza. 2004.






Tratto da Rivista Lavoro e Post mercato n°110

venerdì 16 dicembre 2011

Un social network dedicato al volontariato. Il sito SHINY NOTE

Dopo un’attesa durata alcuni mesi, è diventato pienamente operativo il sito SHINYNOTE, ribattezzato con qualche esagerazione da titolista a corto di idee come il “facebook della speranza”.(1) 
Nonostante il nome, si tratta di un progetto italiano, con base a Brescia. L’idea che sostiene il progetto e il sito è rilevante e merita di essere segnalata, perchè mette insieme le piattaforme tecnologiche che sostengono le reti informali come i social network con alcune tematiche tipiche del terzo settore, come la solidarietà e il volontariato; come dicono i promotori sul sito, “abbiamo immaginato un social network fondato su basi etiche. Lo abbiamo costruito intorno alle storie delle persone, e lo abbiamo destinato a coloro che sanno rintracciare nel quotidiano una scintilla di speranza.”.


Questo elemento delle storie condivise con altri costituisce un altro punto interessante dell’intero progetto, proprio per la forza inclusiva delle narrazioni, accresciuta e resa più “calda” dalle storie che si portano all’attenzione degli internauti e dei potenziali aiutanti. 
E’ noto da tempo, infatti, il potere coinvolgente della narrazione per la comprensione del mondo e per l’azione nella storia. A partire dall’esperienza delle letterature, presenti in modo differente in tutte le culture, è abbastanza chiaro che accanto al pensiero tecnico, in grado di descrivere con precisione quantità e misure dei fenomeni, è altrettanto importante acquisire l’idea che la comprensione della realtà avviene anche attraverso le storie che si tramandano nel tempo. Come dicono esplicitamente gli organizzatori, si tratta di “cambiare il mondo, una storia alla volta”.


Si tratta di un sito dichiaratamente a caccia di buone notizie – e di buone pratiche -, che cerca di raccogliere adesioni, denaro o tempo intorno a delle storie che parlano di solidarietà, a partire dalle organizzazioni no profit che si dedicano ai temi più dimenticati o marginali rispetto agli eventi che si trovano sui grandi media. 


Gli strumenti dello scambio simbolico e materiale sono rinnovati e i “mi piace” alla Facebook non sono riservati solo ad aspetti ludici, ma servono a premiare o a evidenziare i progetti migliori a seconda delle preferenze degli utenti. 
In questo modo, con questo intento di fondo, le piattaforme on line potranno servire a far incontrare persone o associazioni che hanno voglia di lavorare insieme.


La nascita e l’attività di questo social network, poi, sono anche un buon modo per ricordare che il il 2011 è stato decretato dal Consiglio dell’Unione Europea “Anno Europeo del Volontariato”. (2)


NOTE
1) Vedi http://www.shinynote.com/.
2) Per maggiori informazioni vedi http://ec.europa.eu/citizenship/focus/focus840_en.htm. e http://europa.eu/volunteering/. 


Tratto da Rivista Lavoro e Post mercato n° 106

mercoledì 28 settembre 2011

LEGGE BAVAGLIO ! Ci riprovano ancora





 LEGGE BAVAGLIO
CI RIPROVANO.
FERMIAMOLI!!!!!!!!


Il Pdl accelera. La maggioranza vuole riproporre il testo Mastella presentato all'epoca in cui era ministro di Grazia e Giustizia. E se dovesse passare sui giornali non sarà più possibile pubblicare, addirittura fino alla sentenza d'appello, gli atti integrali contenuti nel fascicolo del pubblico ministero.

Da Repubblica.it

domenica 10 luglio 2011

L'esigenza comunista

Il 6 maggio 1934 Walter Benjamin rispondeva al suo amico Scholem: «Di tutte le forme e le espressioni possibili il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo, di una professione di fede [...] a costo di rinunciare alla sua ortodossia – esso non è altro, non è proprio nient’altro che l’espressione di certe esperienze che ho fatto nel mio pensiero e nella mia esistenza, è un’espressione drastica e non infruttuosa dell’impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l’economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza [...] il comunismo rappresenta, per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita».
Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.
Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.
Ripenso a quella lettera a Scholem, così giusta e dura nei toni, quando l’ipotesi comunista si ripresenta nelle voci autorevoli che compongono il libro appena pubblicato da DeriveApprodi, L’idea di comunismo (maggio 2011, pp. 256, euro 18,00). Penso soprattutto a Badiou (il cui contributo ha visto la luce anche in un apposito volumetto di Cronopio dal titolo L’ipotesi comunista) e a Negri: penso all’Idea comunista secondo Badiou, quale «forzatura» dell’impossibile in direzione del possibile, forzatura che opera come una «sottrazione» del potere statuale. Penso alle parole di Negri: essere comunisti significa oggi come ieri «essere contro lo Stato», resistere al rapporto di potere capitalistico in nome di un possibile che non si riduce alla configurazione statuale («i soggetti si propongono sempre come elementi di resistenza singolare e come momenti di costruzione di un’altra forma del vivere comune»). Negri lega poi questa resistenza al suo concetto di «moltitudine», e questo a quello marxiano di classe: le singolarità compongono la moltitudine, le singolarità non soltanto soggiacciono ma resistono al capitale, «la moltitudine è concetto di classe». Se c’è una possibilità, è anche qui nel «rapporto di forza che si esprime fra il padrone e il proletario», cioè nella lotta di classe. Marx diceva: decisiva è la «forza» (Gewalt).
Dunque: il comunismo come possibilità che si dà oltre lo Stato; come possibilità contenuta in quella forza (o violenza, poiché le nostre parole si riuniscono nel tedesco Gewalt) che scontrandosi con lo Stato riesce a resistergli, cioè a sottrargli potere; forza che appartiene alla classe, violenza di cui solo la classe è capace. Questo è il punto, ancora oggi; e a chi crede che ragionare in termini di classe sia davvero poco à la page, risponderà il sillogismo di Marchionne: poiché le classi non esistono, ubbidite al padrone. Si tratta dunque, ancora una volta, di quel grado estremo nel quale la dinamica potere-resistenza raggiunge l’antinomia, grado decisivo di tensione e resistenza che Marx ha espresso con la formula: «catene radicali».
Vorrei allora tornare a Benjamin, riprendendo e sviluppando alcuni temi toccati in un mio libretto intitolato appunto Classe (Bollati Boringhieri 2009). Nel 1936, Benjamin compone la cosiddetta zweite Fassung del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si tratta della stesura più completa e importante del saggio. Ora, questa versione contiene com’è noto una lunga nota sul concetto di classe, nota assai apprezzata da Adorno nella famosa lettera a Benjamin del 18 marzo 1936, che per il resto era invece fortemente critica. La nota si apre con queste parole: «La coscienza di classe proletaria, che è la più chiarita, tra l’altro modifica profondamente la struttura della massa proletaria». Questo nel 1936, quando la massa proletaria tedesca che tanto piaceva agli apparati di partito era caduta nelle braccia del nazismo, quando il fascismo era ormai penetrato negli ambienti operai in profondità, e – come scrisse Wilhelm Reich – da due parti: attraverso il Lumpenproletariat («una espressione che fa rizzare i capelli») e la sua corruzione materiale, e attraverso l’«aristocrazia operaia» e la sua duplice corruzione, materiale e ideologica.
Proprio in queste condizioni, cioè quando la stolida fiducia nella «base di massa» aveva dato i suoi frutti, Benjamin pensava alla coscienza di classe come modificazione della struttura di questa massa. Che tipo di modificazione? Un allentamento, un rilassamento, una Aufloc-kerung, si legge nelle righe successive. Di cosa? Delle pressioni, appunto, che producono la pericolosa massa piccolo-borghese. Se esiste una coscienza di classe proletaria, sarà anche e necessariamente un allentamento capace di impedire la trasformazione di quella massa di operai in una folla pericolosa, nella folla studiata dai maestri della psicologia sociale di fine Ottocento: «Le Bon e gli altri». Proprio qui, dove ci aspetteremmo almeno un riferimento all’amplissima letteratura di stampo marxista, Benjamin ricorre ad autori ben diversi e persino reazionari. Cita Le Bon. Ma «citare» significa per lui salvare qualcosa strappandolo al contesto originario: la foule dangereuse, la folla che per Le Bon segue il suo capo in stato ipnotico, viene così strappata alla sua condizione di modello ideale, viene storicizzata e riconosciuta con precisione nella massa piccolo-borghese. Perché la piccola borghesia non è neanche una classe (ist keine Klasse) ma soltanto una folla. È la massa compatta (kompakte Masse) del totalitarismo, compressa dalle paure, dalle spinte degli antagonismi sociali, che non agisce ma è solo reattiva, e in cui prevale l’odio razzista, l’entusiasmo sonnambolico per la guerra. «In questa massa, in effetti, è determinante l’istinto gregario». Il suo modello è stato plasmato dal capitale: un semplice aggregato di individui che non hanno nulla in comune se non gli interessi privati. Sono i clienti, riuniti casualmente nel mercato.
E se il capitale è appunto interessato al controllo di questa massa eterogenea di semplici consumatori, lo Stato esegue ora il suo compito storico: rende le adunate perenni e obbligatorie offrendo agli individui un modo di venire a capo della propria situazione, di farsi una ragione del loro assembramento casuale in termini di razza, sangue, suolo; offrendo a questa folla gregaria e ipnotizzata una guida sicura, cioè un politico-attore, un divo-ammaliatore. La «prestazione» (Leistung) specifica di questo capo sarà infatti saper stare di fronte alla macchina da presa.
La coscienza di classe è invece attiva: opera l’allentamento delle pressioni e lo fa, per Benjamin, attraverso la solidarietà (Solidarität). Ora anche questa parola, «solidarietà» (la più usata), acquista qui un senso del tutto nuovo. Perde il suo significato militaresco di formazione compatta, si allontana dal dovere e dal debito (essere in solido), fa anch’essa la prova del rilassamento (abbandono delle paure, solidarietà del piacere, edonismo rivoluzionario: sono i temi che nel libro avevo cercato di sviluppare attraverso il marxismo epicureo di Jean Fallot). Questa classe solidale non può essere mai ipostatizzata, mai riconosciuta in alcun «soggetto» determinato: non è altro che dissoluzione costante delle tensioni. È il contro-movimento che resiste alla formazione della folla piccolo-borghese (compressa tra paure e speranze) in seno a qualsiasi formazione sociale. E se c’è un capo rivoluzionario, se qualcuno indica la strada, è colui che non si lascia mai ammirare. La sua «prestazione» sarà: sapersi immergere sempre di nuovo, scomparire, solidale, nelle pieghe della massa, diventare «uno dei centomila». Facciamo nostra questa prestazione: allentiamoci.
Auflockerung è qui il termine chiave. Anche se Adorno l’aveva curiosamente trascurato. Nella lettera del 18 marzo 1936, infatti, scriveva: «Non posso concludere senza dirle che le poche frasi sulla disintegrazione (Desintegration) del proletariato come “massa” (‘Masse’) attraverso la rivoluzione rientrano per me tra le più profonde e potenti, sul piano della teoria politica, da quando ho letto Stato e rivoluzione». Ora, Benjamin non aveva mai parlato di disintegrazione, ma di una trasformazione della struttura sociale. E non aveva certo scelto a caso la parola: Auflockerung.
Come chiarirla? A partire da un’ipotesi per così dire filologica. Direi che Benjamin riprende qui, nel saggio sull’arte di massa, un terminus technicus della sua filosofia, e in particolare della sua meditazione estetica; direi che egli riprende qui, dove «l’estetica diventa politica», il concetto chiave di un saggio giovanile, dedicato a Due poesie di Friedrich Hölderlin. Si trattava, in quelle pagine del 1914-15, di determinare il compito dell’esegesi. L’esegeta, diceva Benjamin, deve rivolgersi alla poesia (Gedicht) facendo emergere quel dettato (Gedichtete) che ha guidato il poeta e a cui il poeta è riuscito a dare sì un’espressione in atto (in quel testo che abbiamo sotto gli occhi), e tuttavia una determinazione limitata. Qualcosa del dettato è rimasto ancora in potenza, ancora esprimibile. Deve allora occuparsene il buon esegeta. Come può farlo? Non è forse questo dettato qualcosa di troppo vago, come un’idea prima e ormai inattingibile, il non-so-che di un’ispirazione di fatto indeterminabile? Al contrario, risponde Benjamin, il dettato si differenzia dall’opera solo «per la sua maggiore determinabilità: non per una mancanza quantitativa, ma per l’esistenza potenziale delle determinazioni in atto nella poesia, e di altre».
L’esegesi consisterà allora in un «allentamento» (Auflockerung) dei legami interni, funzionali, che governano l’opera poetica e le conferiscono la sua forma attuale. L’esegesi – diremo – è dunque una modificazione profonda della struttura dell’opera: è quell’atto che forza il dato testuale, flette le sue giunture, spezza i vincoli prosodici e fa apparire, nell’opera stessa, uno spettro di possibilità ancora aperte. L’esegesi è lo sviluppo e il dispiegamento dei possibili che un testo poetico serba in sé, ancora inespressi. Per questo ogni autentica poesia, potremmo dire ancora, esige l’operazione esegetica.
Come si sa, Benjamin scrisse negli anni del saggio sull’Opera d’arte quello sul teatro epico di Brecht, in una prima versione nel 1931 e poi in quella definitiva nel 1939. Questo teatro, diceva il testo del 1931, si distingue dagli altri poiché non richiede che il pubblico lo segua come una «massa ipnotizzata». E la stesura del ’39 precisava: il pubblico del teatro epico è un pubblico rilassato (entspanntes Publikum), che segue l’azione con distacco, un pubblico critico e allentato (gelockert). Il teatro brechtiano rappresentava per Benjamin, dunque, una tecnica di allentamento. E nella forza che distrugge la «quarta parete», nella cancellazione della differenza ovvero nella piena solidarietà tra attore e pubblico – come anche nell’ammirazione di Benjamin per il cinema privo di «attori» dell’avanguardia russa – riconosciamo il modello della politica o dell’esigenza comunista.
La classe rivoluzionaria è un rilassamento del pubblico. Il comunismo è un’azione di allentamento: scioglie tutte le catene sciogliendo quei legami aberranti (i miti biopolitici del territorio, della razza, della patria o del lavoro) che lo Stato dispone per organizzare l’ammasso casuale dei consumatori e contenerne le spinte dissolutorie. Sciogliendo questi legami (e la massa nella classe), il comunismo dispiega la potenza del nostro essere insieme (la nostra piena determinabilità). Dove c’è il divo-attore, dove si dà un maestro della posa (e sia anche una posa di sinistra), ci sono solo folla e fascismo. Il comunismo non riconosce nessun divo.

FONTE: Alfabeta2

sabato 4 giugno 2011

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