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domenica 15 settembre 2013

La lotta di classe ci sarà ancora?

Incollo un'intervista di Repubblica a Mario Tronti del 5 settembre 2013.
Il video non è inerente all'intervista ma è un modo per ascoltare il prof. Tronti.


Intervista a Mario Tronti: 
"La lotta di classe c'è ancora"
"Non facciamoci distrarre". Parla il fondatore dei "Quaderni Rossi" e dell'operaismo teorico che oggi si definisce "intellettuale comunista senza un partito comunista"
di MICHELE SMARGIASSI


ROMA - Dalla finestra dello studio del senatore Mario Tronti si sbircia il Borromini: la sua cupola di Sant'Ivo, tutta una controcurva, è un'antinomia barocca, una stravaganza, eppure sta in piedi. Un po' come la sinistra. "Strana e affascinante", la osserva appoggiato al davanzale il filosofo, teorico dell'operaismo, che a 82 anni è la personificazione del pensiero critico della sinistra italiana. Di sé ha scritto, autoironico: "Sono anch'io un'antichità del moderno", non si vergogna della sua nostalgia per il "magnifico Novecento", ma osserva le controcurve del nuovo millennio.

Ha mai detto di se stesso "sono un uomo di sinistra"? Qualcosa mi fa supporre di no...
"Ha indovinato. Non lo direi mai, mi sembra banale. Penso che "sinistra" sia qualcosa di cui c'è necessità forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora. Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza della parola".

È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l'avrà pure...
"Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso non ne ho un'altra. La vado cercando".



Ipotesi?
"In autunno uscirà un mio libro il cui saggio finale, inedito, si intitola
 La sinistra è l'oltre. Ecco, la sinistra dovrebbe coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire una narrazione, ma io preferisco dire visione, di quel che può esistere dopo la forma sociale e politica del mondo che abbiamo".

Non è sempre stata questo? Un movimento che "abolisce lo stato di cose presente"?
"A questo si erano dati nomi più forti, socialismo, comunismo, e più efficaci, perché dicevano immediatamente anche all'uomo più semplice che si andava verso qualcosa al di là dell'orizzonte".

Mentre sinistra è uno "stato in luogo"?
"Di certo non ha la stessa capacità di evocazione, serve magari a criticare il presente ma non contiene il futuro. È rimasta in campo, ma non è riuscita a creare quella grande appartenenza umana, antropologica, che le vecchie parole suggerivano. Forse "sinistra" riflette proprio questo passaggio dalla prospettiva all'autodifesa, dal movimento alla trincea".

Ma si diventa di sinistra? O ci si nasce?
"Ognuno ha la propria risposta. Non amo parlare di me, ma posso dirle che nel mio caso è stato quasi un fatto naturale, da giovanissimo, diventare comunista. Perché quella è stata la mia parola, subito. Ha contato molto l'estrazione popolare della mia famiglia, mio padre comunista col quadro di Stalin sopra il letto, mi sono immesso in quell'orizzonte in modo naturale, ovviamente da lì è partito un percorso lungo e critico...".

Fino alla dramma del crollo. Lei ha scritto: fu uno strabismo, credevamo fosse il rosso dell'alba, era quello del tramonto...
"Ma prima di questo avevamo già declinato la categoria del disincanto. Quando sono caduti nome e forma del partito, ricordo bene che in quel travaglio mi sono affidato a una scelta: rimarrò un intellettuale comunista in qualunque partito mi troverò a militare. E così ho fatto. Resto in quest'area, con la mia identità".

Una volta non era concepibile essere comunisti senza il partito.
"È diventata una scelta libera dalle strutture. Io mi sono iscritto presto nel filone del realismo politico, lungo la linea anti-ideologica Machiavelli Hobbes Marx Weber Schmitt... Essere comunista in questa linea non è facile, ma le grandi idee vanno portate dentro la storia in atto. Tra la visione e la politica c'è la mediazione della pratica, io devo tener conto di quel che c'è, e di come c'è".

Lei ha scritto anche: basta con gli aggettivi, torniamo ai sostantivi. Cosa voleva dire?
"La parola sinistra è stata aggettivata tantissimo. Questo capita alle parole deboli. La differenza tra socialismo e comunismo è che il primo a un certo punto sentì il bisogno di aggiungere "democratico". Il comunismo non lo fece mai. Non so se sia stato un bene o un male, forse è stata una delle cause del suo fallimento".
 

Ma quale strada porta all'oltre? Fare qualcosa di sinistra oggi sembra ridursi a una deontologia civica di onestà, rispetto...
"Da un po' di tempo dico che si è aperta nel mondo contemporaneo una grande questione antropologica: il senso dell'essere qui, in un mondo allargato e transitorio, in questo disagio di civiltà che non è solo politico e sociale o economico. Come essere donne e uomini in questo mondo? La domanda vera è questa. Rispondo così: è importante avere un punto di vista, partire da una posizione. Che può essere soltanto parziale. In una società profondamente divisa non è possibile essere d'accordo con tutti. Certo una volta era più semplice, le parti erano chiare e distinte, erano le classi. La parte ora te la devi andare a cercare".

E come si riconosce?
"Per essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio. Lunga storia, ho detto. Abusivamente ridotta a pochi decenni, quelli del socialismo realizzato, mentre viene dalla rivoluzione industriale, si diversifica nell'Ottocento grande laboratorio, affronta nel Novecento la sfida della rivoluzione...".

La perde...
"Quella storia del movimento operaio ovviamente si è conclusa, ma la storia resta storia. La Spd non è il mio orizzonte politico preferito, ma ha appena celebrato senza imbarazzi i suoi 150 anni di vita. Ecco, quello è un partito! Non può essere partito quello che azzera tutto ogni volta che viene convinto a farlo dalla contingenza politica".
 

Cosa resta di quella storia?
"Una parzialità. La parte del popolo attorno a un concetto che non è sparito con la fine del movimento operaio: il lavoro. Una sinistra del futuro non può che essere la sinistra del lavoro come è oggi, complicato frantumato in figure anche contraddittorie, il dipendente l'autonomo il precario, il lavoro di conoscenza, quello immateriale... La sinistra dovrebbe unificare questo multiverso in un'opzione politica. Ma essendo anche un teorico del pessimismo antropologico, la vedo difficile".

La politica al tramonto. È il titolo di un suo libro recente.
"Io teorizzo pessimisticamente il tempo della fine. Viviamo in un tempo della fine, lo dico senza emozioni apocalittiche che non mi appartengono. Ma è forse anche la fine del grande capitalismo e delle sue ideologie. Vede, la maledizione della sinistra dopo il Pci è stata non avere avversari di rango. Per essere grandi ci vogliono avversari grandi. Altrimenti, per tornare alla sua domanda sulla deontologia civica, si cade nella deriva eticista".

Può spiegare meglio? 
"La cosiddetta sinistra dei diritti, maggioritaria oggi. Quella che si limita a difendere un certo elenco di diritti civili, presentandoli come valori generali. Finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l'immoralità e ti senti a posto dentro questa società".

La rivolta contro la "casta" sembra verbalmente forte e gratificante.
"La famosa antipolitica... La sinistra non ha messo a fuoco il pericolo vero, la sua violenza, il suo obiettivo vero, che è deviare lo scontento popolare su una base che per il potere è sicura perché non minaccia davvero le basi della diseguaglianza. Se non trovi lavoro è perché i ministri hanno le auto blu?".
 

Un'arma di distrazione di massa?
"Un disorientamento politico di massa. Le grandi classi non ci sono più, il conflitto frontale non c'è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di classe c'è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro". 

domenica 10 luglio 2011

L'esigenza comunista

Il 6 maggio 1934 Walter Benjamin rispondeva al suo amico Scholem: «Di tutte le forme e le espressioni possibili il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo, di una professione di fede [...] a costo di rinunciare alla sua ortodossia – esso non è altro, non è proprio nient’altro che l’espressione di certe esperienze che ho fatto nel mio pensiero e nella mia esistenza, è un’espressione drastica e non infruttuosa dell’impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l’economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza [...] il comunismo rappresenta, per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita».
Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.
Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.
Ripenso a quella lettera a Scholem, così giusta e dura nei toni, quando l’ipotesi comunista si ripresenta nelle voci autorevoli che compongono il libro appena pubblicato da DeriveApprodi, L’idea di comunismo (maggio 2011, pp. 256, euro 18,00). Penso soprattutto a Badiou (il cui contributo ha visto la luce anche in un apposito volumetto di Cronopio dal titolo L’ipotesi comunista) e a Negri: penso all’Idea comunista secondo Badiou, quale «forzatura» dell’impossibile in direzione del possibile, forzatura che opera come una «sottrazione» del potere statuale. Penso alle parole di Negri: essere comunisti significa oggi come ieri «essere contro lo Stato», resistere al rapporto di potere capitalistico in nome di un possibile che non si riduce alla configurazione statuale («i soggetti si propongono sempre come elementi di resistenza singolare e come momenti di costruzione di un’altra forma del vivere comune»). Negri lega poi questa resistenza al suo concetto di «moltitudine», e questo a quello marxiano di classe: le singolarità compongono la moltitudine, le singolarità non soltanto soggiacciono ma resistono al capitale, «la moltitudine è concetto di classe». Se c’è una possibilità, è anche qui nel «rapporto di forza che si esprime fra il padrone e il proletario», cioè nella lotta di classe. Marx diceva: decisiva è la «forza» (Gewalt).
Dunque: il comunismo come possibilità che si dà oltre lo Stato; come possibilità contenuta in quella forza (o violenza, poiché le nostre parole si riuniscono nel tedesco Gewalt) che scontrandosi con lo Stato riesce a resistergli, cioè a sottrargli potere; forza che appartiene alla classe, violenza di cui solo la classe è capace. Questo è il punto, ancora oggi; e a chi crede che ragionare in termini di classe sia davvero poco à la page, risponderà il sillogismo di Marchionne: poiché le classi non esistono, ubbidite al padrone. Si tratta dunque, ancora una volta, di quel grado estremo nel quale la dinamica potere-resistenza raggiunge l’antinomia, grado decisivo di tensione e resistenza che Marx ha espresso con la formula: «catene radicali».
Vorrei allora tornare a Benjamin, riprendendo e sviluppando alcuni temi toccati in un mio libretto intitolato appunto Classe (Bollati Boringhieri 2009). Nel 1936, Benjamin compone la cosiddetta zweite Fassung del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si tratta della stesura più completa e importante del saggio. Ora, questa versione contiene com’è noto una lunga nota sul concetto di classe, nota assai apprezzata da Adorno nella famosa lettera a Benjamin del 18 marzo 1936, che per il resto era invece fortemente critica. La nota si apre con queste parole: «La coscienza di classe proletaria, che è la più chiarita, tra l’altro modifica profondamente la struttura della massa proletaria». Questo nel 1936, quando la massa proletaria tedesca che tanto piaceva agli apparati di partito era caduta nelle braccia del nazismo, quando il fascismo era ormai penetrato negli ambienti operai in profondità, e – come scrisse Wilhelm Reich – da due parti: attraverso il Lumpenproletariat («una espressione che fa rizzare i capelli») e la sua corruzione materiale, e attraverso l’«aristocrazia operaia» e la sua duplice corruzione, materiale e ideologica.
Proprio in queste condizioni, cioè quando la stolida fiducia nella «base di massa» aveva dato i suoi frutti, Benjamin pensava alla coscienza di classe come modificazione della struttura di questa massa. Che tipo di modificazione? Un allentamento, un rilassamento, una Aufloc-kerung, si legge nelle righe successive. Di cosa? Delle pressioni, appunto, che producono la pericolosa massa piccolo-borghese. Se esiste una coscienza di classe proletaria, sarà anche e necessariamente un allentamento capace di impedire la trasformazione di quella massa di operai in una folla pericolosa, nella folla studiata dai maestri della psicologia sociale di fine Ottocento: «Le Bon e gli altri». Proprio qui, dove ci aspetteremmo almeno un riferimento all’amplissima letteratura di stampo marxista, Benjamin ricorre ad autori ben diversi e persino reazionari. Cita Le Bon. Ma «citare» significa per lui salvare qualcosa strappandolo al contesto originario: la foule dangereuse, la folla che per Le Bon segue il suo capo in stato ipnotico, viene così strappata alla sua condizione di modello ideale, viene storicizzata e riconosciuta con precisione nella massa piccolo-borghese. Perché la piccola borghesia non è neanche una classe (ist keine Klasse) ma soltanto una folla. È la massa compatta (kompakte Masse) del totalitarismo, compressa dalle paure, dalle spinte degli antagonismi sociali, che non agisce ma è solo reattiva, e in cui prevale l’odio razzista, l’entusiasmo sonnambolico per la guerra. «In questa massa, in effetti, è determinante l’istinto gregario». Il suo modello è stato plasmato dal capitale: un semplice aggregato di individui che non hanno nulla in comune se non gli interessi privati. Sono i clienti, riuniti casualmente nel mercato.
E se il capitale è appunto interessato al controllo di questa massa eterogenea di semplici consumatori, lo Stato esegue ora il suo compito storico: rende le adunate perenni e obbligatorie offrendo agli individui un modo di venire a capo della propria situazione, di farsi una ragione del loro assembramento casuale in termini di razza, sangue, suolo; offrendo a questa folla gregaria e ipnotizzata una guida sicura, cioè un politico-attore, un divo-ammaliatore. La «prestazione» (Leistung) specifica di questo capo sarà infatti saper stare di fronte alla macchina da presa.
La coscienza di classe è invece attiva: opera l’allentamento delle pressioni e lo fa, per Benjamin, attraverso la solidarietà (Solidarität). Ora anche questa parola, «solidarietà» (la più usata), acquista qui un senso del tutto nuovo. Perde il suo significato militaresco di formazione compatta, si allontana dal dovere e dal debito (essere in solido), fa anch’essa la prova del rilassamento (abbandono delle paure, solidarietà del piacere, edonismo rivoluzionario: sono i temi che nel libro avevo cercato di sviluppare attraverso il marxismo epicureo di Jean Fallot). Questa classe solidale non può essere mai ipostatizzata, mai riconosciuta in alcun «soggetto» determinato: non è altro che dissoluzione costante delle tensioni. È il contro-movimento che resiste alla formazione della folla piccolo-borghese (compressa tra paure e speranze) in seno a qualsiasi formazione sociale. E se c’è un capo rivoluzionario, se qualcuno indica la strada, è colui che non si lascia mai ammirare. La sua «prestazione» sarà: sapersi immergere sempre di nuovo, scomparire, solidale, nelle pieghe della massa, diventare «uno dei centomila». Facciamo nostra questa prestazione: allentiamoci.
Auflockerung è qui il termine chiave. Anche se Adorno l’aveva curiosamente trascurato. Nella lettera del 18 marzo 1936, infatti, scriveva: «Non posso concludere senza dirle che le poche frasi sulla disintegrazione (Desintegration) del proletariato come “massa” (‘Masse’) attraverso la rivoluzione rientrano per me tra le più profonde e potenti, sul piano della teoria politica, da quando ho letto Stato e rivoluzione». Ora, Benjamin non aveva mai parlato di disintegrazione, ma di una trasformazione della struttura sociale. E non aveva certo scelto a caso la parola: Auflockerung.
Come chiarirla? A partire da un’ipotesi per così dire filologica. Direi che Benjamin riprende qui, nel saggio sull’arte di massa, un terminus technicus della sua filosofia, e in particolare della sua meditazione estetica; direi che egli riprende qui, dove «l’estetica diventa politica», il concetto chiave di un saggio giovanile, dedicato a Due poesie di Friedrich Hölderlin. Si trattava, in quelle pagine del 1914-15, di determinare il compito dell’esegesi. L’esegeta, diceva Benjamin, deve rivolgersi alla poesia (Gedicht) facendo emergere quel dettato (Gedichtete) che ha guidato il poeta e a cui il poeta è riuscito a dare sì un’espressione in atto (in quel testo che abbiamo sotto gli occhi), e tuttavia una determinazione limitata. Qualcosa del dettato è rimasto ancora in potenza, ancora esprimibile. Deve allora occuparsene il buon esegeta. Come può farlo? Non è forse questo dettato qualcosa di troppo vago, come un’idea prima e ormai inattingibile, il non-so-che di un’ispirazione di fatto indeterminabile? Al contrario, risponde Benjamin, il dettato si differenzia dall’opera solo «per la sua maggiore determinabilità: non per una mancanza quantitativa, ma per l’esistenza potenziale delle determinazioni in atto nella poesia, e di altre».
L’esegesi consisterà allora in un «allentamento» (Auflockerung) dei legami interni, funzionali, che governano l’opera poetica e le conferiscono la sua forma attuale. L’esegesi – diremo – è dunque una modificazione profonda della struttura dell’opera: è quell’atto che forza il dato testuale, flette le sue giunture, spezza i vincoli prosodici e fa apparire, nell’opera stessa, uno spettro di possibilità ancora aperte. L’esegesi è lo sviluppo e il dispiegamento dei possibili che un testo poetico serba in sé, ancora inespressi. Per questo ogni autentica poesia, potremmo dire ancora, esige l’operazione esegetica.
Come si sa, Benjamin scrisse negli anni del saggio sull’Opera d’arte quello sul teatro epico di Brecht, in una prima versione nel 1931 e poi in quella definitiva nel 1939. Questo teatro, diceva il testo del 1931, si distingue dagli altri poiché non richiede che il pubblico lo segua come una «massa ipnotizzata». E la stesura del ’39 precisava: il pubblico del teatro epico è un pubblico rilassato (entspanntes Publikum), che segue l’azione con distacco, un pubblico critico e allentato (gelockert). Il teatro brechtiano rappresentava per Benjamin, dunque, una tecnica di allentamento. E nella forza che distrugge la «quarta parete», nella cancellazione della differenza ovvero nella piena solidarietà tra attore e pubblico – come anche nell’ammirazione di Benjamin per il cinema privo di «attori» dell’avanguardia russa – riconosciamo il modello della politica o dell’esigenza comunista.
La classe rivoluzionaria è un rilassamento del pubblico. Il comunismo è un’azione di allentamento: scioglie tutte le catene sciogliendo quei legami aberranti (i miti biopolitici del territorio, della razza, della patria o del lavoro) che lo Stato dispone per organizzare l’ammasso casuale dei consumatori e contenerne le spinte dissolutorie. Sciogliendo questi legami (e la massa nella classe), il comunismo dispiega la potenza del nostro essere insieme (la nostra piena determinabilità). Dove c’è il divo-attore, dove si dà un maestro della posa (e sia anche una posa di sinistra), ci sono solo folla e fascismo. Il comunismo non riconosce nessun divo.

FONTE: Alfabeta2

sabato 8 gennaio 2011

Una critica marxista alla teoria della decrescita

Metto un saggio interessante di John Bellamy Foster, professore di sociologia all’Università dell’Oregon, editorialista di Monthly Review e autore di un gran numero di libri su marxismo ed ecologia.

(Da Senza soste.it)

Decrescere o morire?



Nel paragrafo introduttivo del suo libro del 2009 Storms of My Grandchildren, James Hansen, principale climatologo USA e massima autorità scientifica mondiale sul cambiamento climatico, ha dichiarato: ‘Il Pianeta Terra, il creato, il mondo in cui la civiltà si è sviluppata, il mondo con i modelli climatici che conosciamo e linee costiere stabili, è in imminente pericolo... La sorprendente conclusione è che il prolungato sfruttamento di tutti i carburanti fossili sulla Terra minaccia non solo gli altri milioni di specie sul pianeta ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa -e i tempi sono più brevi di quanto crediamo’.

Facendo questa dichiarazione, comunque, Hansen stava parlando solo di una parte della crisi ambientale globale che attualmente minaccia il pianeta: precisamente la crisi climatica. Di recente, scienziati di primo piano (compreso Hansen) hanno proposto nove punti-limite planetari, che demarcano lo spazio operativo sicuro per il pianeta. Tre di questi punti-limite (cambiamento climatico, biodiversità e ciclo nitrogeno) sono già stati oltrepassati, mentre altri, come la disponibilità di acqua pulita e l’acidificazione degli oceani, sono falle planetarie emergenti. In termini ecologici, l’economia è ormai cresciuta a una dimensione e un’invasività tali che sta sia travolgendo i punti-limite planetari che facendo a pezzi i cicli biogeochimici del pianeta.

Quindi, quasi quarant’anni dopo che il Club di Roma ha sollevato il tema dei ‘limiti alla crescita’, la crescita economica idolatrata dalla moderna società sta nuovamente affrontando una sfida formidabile. Quella che è nota come ‘economia della decrescita’, associata in particolare con il lavoro di Serge Latouche, è emersa come un’importante movimento intellettuale europeo con la storica conferenza su ‘decrescita economica per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale’ a Parigi nel 2008, e ha da allora ispirato una rinascita del pensiero verde radicale, così come si è articolato nella ‘Dichiarazione sulla Decrescita’ a Barcellona nel 2010.

Ironicamente la rapida ascesa della decrescita (décroissance in francese) come teoria ha coinciso negli ultimi tre anni con la ricomparsa della crisi economica e della stagnazione, che in queste dimensioni non si vedevano dagli anni ‘30. La teoria della decrescita ci obbliga perciò a chiederci se la decrescita è praticabile nella società capitalista “crescere o morire”, e se non lo è, cosa ci dice sulla transizione a una società nuova.

Secondo il sito web del progetto europeo per la decrescita (www.degrowth.eu), ‘La decrescita comporta l’idea di una volontaria riduzione delle dimensioni del sistema economico, che implica una riduzione del PIL’. ‘Volontaria’ qui mette l’accento su soluzioni volontaristiche, anche se non individualistiche e improvvisate nella concezione europea come nel caso del movimento per la ‘sobrietà volontaria’ negli USA, dove gli individui, (di solito agiati) scelgono semplicemente di uscire dal modello di mercato ad alti consumi. Per Latouche il concetto di decrescita implica un importante cambiamento sociale: un passaggio radicale dalla crescita come obiettivo principale dell’economia moderna al suo opposto (contrazione, riduzione).

Falsa promessa

Una premessa fondamentale di questo movimento è che di fronte all’emergenza economica planetaria la promessa della tecnologia verde si è dimostrata falsa. Questo si può attribuire al ‘paradosso di Jevons’, secondo il quale una maggiore efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse non porta alla conservazione ma ad una maggiore crescita economica, e quindi a una maggior pressione sull’ambiente.

L’inevitabile conclusione -condivisa da un’ampia schiera di pensatori politico-economici e ambientali, non solo quelli collegati direttamente al progetto europeo per la decrescita- è che ci vuole un drastico cambiamento nelle tendenze economiche in atto a partire dalla rivoluzione industriale. Come l’economista marxista Paul Sweezy scriveva più di vent’anni fa: ‘Dal momento che non c’è modo di aumentare la capacità dell’ambiente di sopportare il carico [economico e demografico] che gli viene imposto, ne consegue che la correzione dev’essere operata interamente sull’altro lato dell’equazione. E visto che lo squilibrio ha già raggiunto proporzioni pericolose, ne consegue inoltre che per raggiungere l’obiettivo ciò che è essenziale è un’inversione di rotta, non solo un rallentamento, delle tendenze fondamentali degli ultimi secoli’.

Dato che i Paesi ricchi sono già caratterizzati dal sovraccarico ecologico, appare sempre più evidente che non c’è alternativa, come sottolineava Sweezy, a un’inversione di tendenza alle pressioni sull’ambiente da parte dell’economia. Questo è rafforzato dagli argomenti dell’economista ecologico Herman Daly, che insiste da molto tempo sul bisogno di un’economia a crescita zero. Daly traccia la sua prospettiva a partire dalla famosa discussione di John Stuart Mill sullo ‘stato stazionario’ nei suoi Principi di Economia Politica, dove sosteneva che se l’espansione economica si fosse arrestata (come si aspettavano gli economisti classici), lo scopo economico della società avrebbe potuto essere deviato verso gli aspetti qualitativi dell’esistenza, piuttosto che su un’espansione meramente quantitativa.

Un secolo dopo Mill, Lewis Mumford insisteva nel suo Condition of Man, pubblicato per la prima volta nel 1944, che non solo c’era uno stato stazionario, nel senso in cui lo intendeva Mill, ecologicamente necessario, ma che questo doveva essere legato a una concezione di ‘comunismo elementare... applicando all’intera comunità i criteri della famiglia’ e distribuendo ‘le risorse sulla base del bisogno’ (una visione mutuata da Marx).

Oggi si pensa che questo ricorso al bisogno per fermare la crescita economica nelle economie sovrasviluppate, e anche per restringere queste economie, abbia le sue radici teoriche in The Entropy Law and the Economic Process [La Legge dell’Entropia e il Processo economico] di Nicholas Georgescu-Roegen, che mise le basi della moderna ecologia sociale.

La decrescita come tale non viene vista neppure dai suoi proponenti come una soluzione stabile, ma come uno strumento per ridurre le dimensioni dell’economia a un livello di output che possa essere mantenuto indefinitamente in uno stato stazionario. Questo può comportare la restrizione delle economie ricche di almeno un terzo rispetto ai livelli attuali tramite un processo che porterebbe a investimenti negativi (per cui non solo cesserebbe l’investimento netto ma neanche tutto il capitale sociale esaurito verrebbe rimpiazzato).

Un’economia a stato stazionario, invece, comporterebbe il rinnovo degli investimenti ma azzererebbe il nuovo investimento netto. Come spiega Daly ‘un’economia a stato stazionario’ è ‘un’economia con stock costanti di risorse umane e mezzi di produzione, mantenuti ai livelli sufficienti che si desiderano tramite un basso tasso di “prestazioni” di manutenzione, cioè tramite i flussi più bassi possibile di materia ed energia’.

Viziato da contraddizioni

È superfluo dire che nessuna di queste cose potrebbe facilmente realizzarsi nell’ambito dell’esistenza dell’attuale economia capitalista. In particolare il lavoro di Latouche, che può essere considerato esemplare del progetto europeo per la decrescita, è viziato da contraddizioni, che derivano non dalla concezione della decrescita in sé, ma dal suo tentativo di svicolare dalla questione del capitalismo. Questo si può notare nel suo articolo del 2006, The Globe Downshifted, dove argomenta in modo contorto:

‘Per alcuni nell’estrema sinistra la risposta tipica è che il capitalismo è il problema, cosa che ci lascia nell’ansia impotente di muoverci verso una società migliore. La contrazione economica è compatibile con il capitalismo? Questa è una domanda chiave, ma una domanda a cui è importante rispondere senza ricorrere a dogmi, se si vogliono capire i veri ostacoli...

‘Il capitalismo eco-compatibile è concepibile in teoria, ma irrealistico nella pratica. Il capitalismo richiederebbe un alto livello di regolazione per gestire la riduzione del nostro impatto ecologico. Il sistema di mercato, dominato dalle enormi corporazioni multinazionali, non si adatterà mai di sua spontanea volontà al modello virtuoso dell’eco-capitalismo...

‘I meccanismi di contrappeso tra i poteri, così come sono esistiti nella regolazione keynesiana-fordista dell’era socialdemocratica, sono concepibili e desiderabili. Ma la lotta di classe sembra essersi interrotta. Il problema è: il capitale ha vinto...

‘Una società basata sulla contrazione economica non può esistere sotto il capitalismo. Ma il capitalismo è una parola di una semplicità ingannevole per una storia lunga e complessa. Liberarsi dei capitalisti e mettere al bando il lavoro salariato, la moneta e la proprietà privata dei mezzi di produzione farebbe sprofondare la società nel caos. Porterebbe il terrorismo su grande scala... Abbiamo bisogno di trovare un’altra via d’uscita dallo sviluppo, dall’economicismo (come convinzione della supremazia delle cause e dei fattori economici) e dalla crescita: che non significhi abbandonare le istituzioni sociali che sono state annesse dall’economia (moneta, mercati, anche i salari) ma inserirle in una nuova cornice secondo differenti principi’.

In questo stile apparentemente pragmatico, non-dogmatico, Latouche cerca di tracciare una distinzione tra il progetto della decrescita e la critica socialista del capitalismo: (1) dichiarando che ‘il socialismo eco-compatibile è concepibile’, almeno in teoria; (2) dicendo che gli approcci keynesiani e cosiddetti ‘fordisti’ alla regolazione, associati alla socialdemocrazia, potrebbero -se ancora praticabili- addomesticare il capitalismo, ricacciandolo sul ‘virtuoso sentiero dell’eco-capitalismo’; e (3) insistendo sul fatto che la decrescita non ha lo scopo di rompere la dialettica capitale-lavoro salariato o interferire con la proprietà privata dei mezzi di produzione. In altri scritti, Latouche chiarisce che consideraa il progetto della decrescita compatibile con la continuità della valorizzazione (per es. un aumento dei rapporti di valore capitalistici) e che nulla di ciò che va verso l’eguaglianza sostanziale è considerato fuori portata.

Ciò che Latouche sostiene più esplicitamente in relazione al problema ambientale è l’adozione a ciò che definisce ‘misure riformiste, i cui principi [di economia dello stato sociale] sono stati tracciati all’inizio del XX secolo dall’economista liberale Arthur Cecil Pigou [e] porterebbero a una rivoluzione’ internalizzando le esteriorità ambientali dell’economia capitalista. Ironicamente, la sua posizione è identica a quella dell’economia ambientale neoclassica e diversa dalla più radicale critica spesso sostenuta dall’economia ambientale, nella quale viene duramente attaccata l’idea che i costi ambientali possano essere semplicemente internalizzati nell’attuale economia capitalista.

Implicazioni di classe

‘La stessa crisi ecologica è descritta’ nell’attuale progetto per la decrescita, come ha osservato criticamente il filosofo greco Takis Fotopoulos, ‘nei termini di un problema comune che “l’umanità” affronta a causa del degrado ambientale, senza citare per niente le diverse implicazioni di classe di questa crisi, per es. il fatto che le implicazioni sociali della crisi ecologica sono pagate soprattutto in termini di distruzioni di vite e qualità della vita dai gruppi sociali inferiori -in Bangladesh come a New Orleans- e molto meno da parte delle élites e delle classi medie’.

Dato che si prende a bersaglio il concetto astratto della crescita economica piuttosto che la realtà concreta dell’accumulazione capitalistica, la teoria della decrescita -nell’influente forma articolata da Latouche e altri- trova naturalmente difficile affrontare l’odierna realtà di crisi economica/stagnazione, che ha prodotto i più alti livelli di disoccupazione e devastazione economica dagli anni ’30 ad oggi.

Latouche stesso ha scritto nel 2003 che ‘non ci sarebbe niente di peggio di una crescita economica senza crescita’. Ma di fronte ad un’economia capitalista chiusa in una profonda crisi strutturale, gli analisti europei della decrescita hanno poco da dire. La Dichiarazione sulla Decrescita, scritta a Barcellona nel Marzo 2010, diceva semplicemente: ‘Le cosiddette misure anti-crisi che cercano di stimolare la crescita economica, a lunga scadenza peggioreranno le disuguaglianze e la situazione ambientale’. Senza aspirare né a difendere la crescita, né a rompere con le istituzioni del capitale -neanche, quindi, a schierarsi con i lavoratori, il cui bisogno più grande oggi è l’occupazione- i principali teorici della decrescita rimangono stranamente silenziosi di fronte alla più grande crisi economica dopo la Grande Depressione.

A conferma di questo, di fronte all’‘attuale decrescita’ nella Grande Recessione del 2008-2009 e al bisogno di una transizione alla ‘decrescita sostenibile’, la nota economista ecologica Joan Martinez-Alier, che ha di recente abbracciato la bandiera della decrescita, ha offerto il palliativo di ‘un keynesianesimo verde di breve termine o un new deal verde’. Lo scopo, ha dichiarato, era quello di promuovere una crescita economica e ‘contenere l’aumento della disoccupazione’ tramite l’investimento pubblico in tecnologia verde e infrastrutture.

Questo è stato considerato compatibile con il progetto della decrescita in quanto questo keynesianesimo verde ‘non diventava una dottrina della crescita economica continua’. Ma come i lavoratori potessero collocarsi in questa strategia largamente tecnologica (fondata sulle idee di efficienza energetica che gli analisti della decrescita generalmente rifiutano) rimaneva incerto.

Infatti, piuttosto che affrontare direttamente il problema della disoccupazione -con un programma radicale che darebbe alla gente posti di lavoro diretti alla creazione di genuini valori d’uso in modi compatibili con una società più sostenibile- i teorici della decrescita preferiscono enfatizzare un orario di lavoro ridotto che separi ‘il diritto a ricevere una remunerazione dal fatto di essere occupato’ (attraverso la promozione di un reddito universale di base). Si pensa che questi cambiamenti dovrebbero permettere al sistema economico di restringersi e allo stesso tempo garantire un reddito alle famiglie -mantenendo nel frattempo intatta la struttura basilare dell’accumulazione del capitale e del mercato.

Ma guardando da un punto di vista più critico è difficile considerare l’attuazione di un orario di lavoro ridotto e di un reddito di base garantiti nelle dimensioni ipotizzate se non come elementi di una transizione a una società post-capitalista (quindi socialista). Come diceva Marx, la regola per il capitale è: ‘Accumulare, accumulare! Così dicono Mosé e i profeti!’

Per rompere con le basi istituzionali della ‘legge del valore’ del capitalismo o mettere in discussione la struttura basilare su cui si fonda lo sfruttamento del lavoro (che sarebbero entrambe minacciate da una drastica riduzione dell’orario di lavoro e da un reddito sostanziale garantito) si devono affrontare questioni più ampie di cambiamento di sistema -cosa di cui i principali teorici della decrescita non sembrano disponibili a rendersi conto per il momento. Inoltre un approccio significativo alla creazione di una nuova società dovrebbe assicurare non solo reddito e tempo libero, ma provvedere anche al bisogno umano di un lavoro utile, creativo e non alienato.

Decrescita e Sud

Ancora più problematico è l’atteggiamento dell’attuale teoria sulla decrescita verso il Sud globale. ‘La decrescita’, scrive Latouche, ‘deve applicarsi al Sud quanto al Nord se vogliamo che vi sia la possibilità di impedire alle società del Sud di percorrere il vicolo cieco dell’economia della crescita. Finché siamo in tempo, non dovrebbero puntare sullo sviluppo ma sull’uscita dal meccanismo -rimuovendo gli ostacoli che gli impediscono di svilupparsi in modo diverso... I Paesi del Sud hanno bisogno di uscire dalla loro dipendenza economica e culturale dal Nord e riscoprire le loro proprie storie’.

Mancando di un’adeguata teoria dell’imperialismo, e non riuscendo ad affrontare il profondo abisso di disuguaglianza che separa le nazioni più ricche da quelle più povere, Latouche allora riduce l’immensa complessità del problema del sottosviluppo a un fatto di autonomia culturale e soggezione al feticcio occidentalizzato della crescita.

Si può fare un confronto tra questo e la risposta molto più ragionata di Herman Daly, che scrive: ‘È un’assoluta perdita di tempo predicare moralisticamente le dottrine sullo stato stazionario ai Paesi sottosviluppati prima che i Paesi sovrasviluppati abbiano preso provvedimenti per ridurre la loro stessa crescita demografica o la crescita del loro consumo procapite di risorse. Quindi il paradigma dello stato stazionario dev’essere prima essere applicato neli Paesi sovrasviluppati... Una delle maggiori forze necessarie a spingere i Paesi sovrasviluppati verso il... paradigma dello stato stazionario dev’essere l’attacco del terzo mondo al loro sovraconsumo... Il punto di partenza nell’economia dello sviluppo dovrebbe essere il “teorema dell’impossibilità”... che uno stile di vita USA con un’economia ad alto consumo di massa per un mondo di quattro miliardi di persone [la cifra era questa nel 1975] è impossibile, e anche se si ottenesse qualche miracolo, questo avrebbe certamente vita breve.’

La nozione che la decrescita come concezione possa essere applicata essenzialmente allo stesso modo sia ai Paesi ricchi del centro che ai Paesi poveri della periferia rappresenta un errore tipico causato dalla semplice imposizione di un’astrazione (la decrescita) a un contesto nel quale è sostanzialmente privo di significato, come ad Haiti, nel Mali, o per molti versi anche in India. Il vero problema nella periferia globale è quello di superare i legami imperiali, trasformare l’esistente modo di produzione e creare possibilità produttive ugualitarie-sostenibili.

È chiaro che molti Paesi del Sud con redditi procapite molto bassi non possono permettersi la decrescita ma hanno bisogno di un tipo di sviluppo sostenibile, diretto ai bisogni reali come l’accesso all’acqua, al cibo, all’assistenza sanitaria, all’educazione, ecc. Questo richiede che nella struttura sociale ci si allontani radicalmente dai rapporti di produzione del capitalismo/imperialismo. È significativo che negli articoli largamente diffusi di Latouche non vi sia praticamente nessuna citazione di quei Paesi, come Cuba, Venezuela e Bolivia, dove sono in corso lotte concrete per spostare le priorità sociali dal profitto ai bisogni sociali. Cuba, come ha indicato il Living Planet Report, è il solo Paese del mondo che ha un alto sviluppo umano e un impatto ecologico sostenibile.

Co-rivoluzione

È innegabile che oggi la crescita economica sia il principale fattore del degrado ambientale planetario. Ma incentrare la propria intera analisi sul rovesciamento di un’astratta ‘società della crescita’ significa perdere ogni prospettiva storica e buttar via secoli di scienza sociale. Il valore in termini ecologici della concezione della decrescita è solo quello di apportare un genuino significato come parte di una critica dell’accumulazione capitalistica, e parte della transizione a un ordinamento sostenibile, egualitario, comunitario, -nel quale i produttori associati governino la relazione metabolica tra la natura e la società nell’interesse delle generazioni successive e della Terra stessa (socialismo/comunismo così come Marx lo definiva).

Quello di cui si ha bisogno è un ‘movimento co-rivoluzionario’, per usare il pregnante termine di David Harvey, che metterà insieme la critica tradizionale al capitale della classe lavoratrice, la critica dell’imperialismo, le critiche del patriarcato e del razzismo, e la critica della crescita ecologicamente distruttiva (insieme ai relativi movimenti di massa).

Nella crisi generalizzata dei nostri tempi, un movimento così ampio, co-rivoluzionario, è concepibile. Qui l’obiettivo sarebbe la creazione di un nuovo ordine nel quale la valorizzazione del capitale non governerebbe più la società.

‘Il socialismo è utile’, scriveva E F Schumacher in Piccolo è Bello, proprio per la ‘possibilità che crea per il superamento della religione dell’economia’, cioè, ‘la moderna tendenza verso la quantificazione totale a spese dell’apprezzamento delle differenze qualitative’. In un ordinamento sostenibile, le persone delle economie più ricche (specialmente quelle degli strati più alti) dovrebbero imparare a vivere con ‘meno’ in termini di prodotti per abbassare il peso procapite sull’ambiente. Allo stesso tempo, la soddisfazione dei genuini bisogni umani e la richiesta di una sostenibilità ecologica potrebbero diventare i principi costitutivi di un nuovo ordine più comunitario mirato alla reciprocità umana, che consenta lo sviluppo qualitativo, e anche la pienezza.

Questa strategia può assicurare alla gente un lavoro che abbia un valore, non dominato dal cieco produttivismo. La lotta ecologica, intesa in questi termini, deve puntare non solo alla decrescita in astratto ma più concretamente alla dis/accumulazione -nel senso di un processo di uscita da un sistema alimentato dall’accumulazione senza fine di capitale. Al suo posto dovrebbe mettere una nuova società co-rivoluzionaria, dedicata ai bisogni comuni dell’umanità e della Terra.

Fonte: http://www.redpepper.org.uk/degrow-or-die/