sabato 30 gennaio 2010

ICANN accoglie altri alfabeti su Internet


Dal 16 novembre appena trascorso, l’unico organo riconosciuto di governance della Rete, l’ICANN, ha dato via libera alla registrazione dei domini su Internet con caratteri non latini. (1)
La svolta si può definire come epocale, quasi a sancire in modo definitivo la perdita del centro di gravità della Rete posizionato negli Stati Uniti.
E’ ben più di un cambiamento tecnico o un aggiornamento di protocollo per consentire a chi voglia accedere alla Rete di trovare spazio a sufficienza. (2)
E’ la riprova che nuovi soggetti, intere popolazioni, possono trovare su Internet la loro lingua, scritta con i caratteri che conoscono e che usano tutti i giorni e che non debbono per forza passare per le forche caudine dell’inglese.
Si prende atto, con questa scelta tecnica - richiedere gli IDNs (International Domain Names) con nomi a dominio scritti con alfabeti differenti da quello latino -, che la Rete conta i suoi utenti in tutto il mondo e che i quasi due miliardi di persone che la usano parlano e scrivono in lingue che non utilizzano i caratteri occidentali.(3)
Ma la scelta, ribadiamo, non è solo pragmatica, dettata dal buon senso e dalle pressanti richieste di Paesi che hanno un peso crescente sulla scena mondiale, come la Cina o l’India.
E’, innanzitutto, un potente e inedito panorama simbolico che si modifica e che amplia i suoi confini in modo significativo. Si prende atto che esiste una pluralità di lingue e, di conseguenza, una pluralità di culture e di sguardi diversificati sulla realtà.
Come e più di altri sistemi di segni, gli alfabeti offrono una prodigiosa capacità combinatoria, tali da risultare tra i più potenti motori di creazione simbolica.
Le centinaia di lingue conosciute stanno lì a testimoniarlo: non c’è cultura che non si sia riflessa nei segni e nelle parole che hanno codificato e costruito le varie espressioni umane.
Prendere atto di questa diversità, offrire risorse tecniche per codificare lingue e culture fin qui marginalizzate, significa promuovere concretamente e pacificamente un mondo pluridimensionale e articolato.
Non tutto è oro quel che luccica, sia chiaro.
L’accesso alla Rete con il proprio sistema grafico e simbolico, infatti, non significa automaticamente la parità assoluta nel sistema di produzione dei codici che ne sostengono l’architettura. I linguaggi per costruire e programmare il web sono ancora monopolizzati dalla lingua inglese; per un periodo di tempo molto lungo, almeno in questo campo, la supremazia resterà ancora saldamente in mani anglosassoni.
Resta da vedere se e quando coloro che costruiscono i linguaggi di programmazione sapranno o vorranno proporre alternative concrete ai vari codici già in uso.
Per fare fronte alla babele delle lingue, si porrà presto l’esigenza di un sistema di traduzione tra alfabeti, idiomi e codici differenti.

NOTE
1)L'ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) è un ente internazionale non-profit, istituito nel 1998 per la gestione di Internet, in sostituzione di altri organismi. Tale funzione era precedentemente svolta dall'ente denominato IANA (Internet Assigned Numbers Authority) delegato con mandato governativo degli USA.
L'ICANN ha l'incarico di assegnare gli indirizzi IP ed ha inoltre incarico di identificatore di protocollo e di gestione del sistema dei nomi dei domini. Dal settembre di quest’anno l'ICANN ha siglato un nuovo contratto che prevede il controllo dell'organo da parte di un gruppo di supervisori internazionali: il Government Advisory Committee (GAC) che si riunisce ogni tre anni, ed un legame meno stretto con il governo USA. Vedi http://www.icann.org/.
2) Nel 2008 ICANN ha avviato la migrazione verso il protocollo IPv6, che consiste essenzialmente nell’aumento delle possibilità di creazione di indirizzi web, dato che l’attuale protocollo IPv4 è in via di esaurimento. Vedi su questo punto http://it.wikipedia.org/wiki/IPv6.
3) I test di conversione dei vari segni sono partiti circa due anni fa e ICANN assicura che il sistema è pronto all’uso.

sabato 23 gennaio 2010

Remunerazione del lavoro e utilità sociale


La notizia che è circolata qualche tempo fa sull’utilità di alcuni lavori e sulla giusta remunerazione che spetta o dovrebbe spettare in base all’utilità sociale delle professioni, non ha suscitato particolare dibattito.

Eppure la questione meriterebbe un po’ più di attenzione, visto che va ad intaccare uno dei miti più persistenti rispetto al prestigio e al riconoscimento economico dati al lavoro.
In estrema sintesi, la notizia è questa.
Secondo alcuni economisti inglesi, appartenenti ad un interessante ed indipendente gruppo di ricerca che cerca di modificare il cosiddetto “pensiero unico” dell’economia di mercato, il valore sociale del lavoro che si fa non coincide con il valore economico che usualmente gli si assegna. (1)

Il NEF (New Economics foundation) ha infatti calcolato il valore economico e il valore sociale di alcuni lavori, sei per la precisione, di cui tre pagati molto bene e tre molto poco. (2)
Ponendo a confronto le attività di un addetto alle pulizie di un ospedale e quelle di un banchiere, si avrà come risultato per addetto alle pulizie di dieci sterline di profitto per ogni sterlina di salario, mentre per ogni sterlina guadagnata da un banchiere, ce ne sono sette perdute dalla comunità. Non bastasse questo, valutano ancora gli economisti, i banchieri sono i responsabili di campagne che creano insoddisfazione, infelicità e istigano al consumismo sfrenato. Analogo risultato se si opera un confronto tra un operatore ecologico ed un fiscalista: il primo svolge un’attività benefica per l’ambiente, mentre il secondo danneggia la collettività perché spesso opera per ridurre le tasse dovute dai contribuenti.


Come si vede, i principi di valutazione e le metodologie costruite per operare queste comparazioni fanno esplicito riferimento al valore sociale, ambientale ed economico del lavoro svolto e delle professioni di riferimento

Esaminando il contributo sociale del loro valore si è scoperto che i lavori pagati meno sono quelli più utili al benessere collettivo, ci dicono gli economisti del NEF.

Sembra di ascoltare a distanza di alcuni secoli le paradossali conclusioni che Mandeville ci aveva mostrato ne La Favola delle api (1729).
In quel libello, infatti, si assumeva che le società possono prosperare solo perché l’egoismo e il tornaconto individuale sono alla base delle azioni individuali e che sono ipocrite quelle società che non riconoscono che i vizi sono necessari perché vi siano virtù. (3)
C’è un implicito riconoscimento che molte attività lavorative non solo sono inutili ma addirittura dannose. Il paradosso del ragionamento Mandevilliano sembra rispettato: abbiamo bisogno dei vizi per far risaltare le virtù e per il progresso della società.
Se non per altri meriti, questo studio dovrebbe essere meglio apprezzato almeno per l’idea di fondo che dovrebbe esserci una corrispondenza diretta tra quanto i lavori sono retribuiti e il valore e l’utilità che essi generano per la collettività.


NOTE

1) Vedi http://www.neweconomics.org/. Il documento di cui ci occupiamo qui è al seguente indirizzo: http://www.neweconomics.org/publications/bit-rich.
2) La ricerca analizza nel dettaglio sei lavori diversi, scelti nel settore pubblico e nel settore privato. Tre di questi sono pagati poco (un addetto alle pulizie in ospedale, un operaio di un centro di recupero materiali di riciclo e un operatore dell'infanzia), mentre gli altri tre hanno stipendi molto alti (un banchiere della City, un dirigente pubblicitario e un consulente fiscale).
3) Come scrisse il medico e filosofo olandese, "Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa". Vedi http://www.filosofico.net/mandeville.htm.


Tratto da Rivista Lavoro e Post mercato, n° 77

domenica 10 gennaio 2010

Un nuovo Rapporto sulla condizione dell'infanzia (seconda ed utlima parte)


Tra i tanti temi proposti, un altro tema che sembra dominante in questo rapporto è una presenza importante di ansia e di paura nelle giovani generazioni. Il profilo dei giovani e giovanissimi italiani che viene fuori da questa analisi è quello di una generazione condizioanata dall’ansia e dalla paura.

Entrando nei dati, emerge che per il 22,6% dei bambini italiani la paura più grande è di essere rapiti. Segue un 16,3% che ha paura di essere avvicinato da sconosciuti, mentre il 16,2% teme di essere coinvolto in attentati terroristici.

Rispondendo alle domande relativa ai “pericoli vissuti” si nota come l'enfatizzazione mediatica dell’emergenza sicurezza nelle città abbia influenzato anche i piccoli italiani.
Il 39,2%, infatti, non si è sentito al sicuro andando in giro per la città. Ma anche la propria abitazione (23,8%) e la scuola (10,1%) sono luoghi che non trasmettono sicurezza.
Per quanto riguarda gli adolescenti, la paura più frequente è quella di essere vittima di violenze sessuali (17%), seguita dal timore di essere importunati da sconosciuti (11%) e di essere rapiti (9,7%). Tuttavia, il 51,6% degli adolescenti italiani ha detto di non essersi mai sentito in pericolo.

Un capitolo davvero interessante, tra gli altri, riguarda la proiezione dei ragazzi verso il futuro.
Se c'è un tempo che di necessità appartiene ai giovani, esso è il futuro.
Eppure, dal tenore delle risposte, la speranza nel futuro, di trovare un lavoro o di avere una vita soddisfacente, non emerge come un dato importante. Semmai, sembra presentarsi una diffusa consapevolezza della difficoltà dei tempi e una certa disillusione per un futuro che appare nebuloso, problematico, incerto.
Infatti, il 56,7% dei giovani si dice abbastanza (43,6%) o molto fiducioso (13,1%) di trovare un lavoro sicuro ed economicamente soddisfacente, contro un 42,2% che invece nutre poca o addirittura nessuna speranza.
Il 65,1% degli intervistati, poi, si è detto molto (21,4%) o abbastanza (43,7%) convinto che il futuro riservi la possibilità a ciascuno di trovare il lavoro che più piace mentre il 34% non è così ottimista.

Insomma sembra mancare un deciso ottimismo verso il futuro, come a rimarcare la mancanza di un progetto di progresso e di emancipazione che riguarda non solo i giovani ma tutti quanti.
D'altronde, un orizzonte di questo genere, misurato sul complesso della società italiana, offre un segnale non certo incoraggiante sulla qualità dei progetti sul futuro.
Senza entrare troppo nell'attualità politica e nelle parole d'ordine che si rincorrono sui principali mezzi d'informazione, Rete compresa, la proiezione sul futuro e sui progetti complessivi di società sembra carente o addirittura mancare del tutto. Perché, dunque, dovremmo meravigliarci se la disillusione e l'attenzione al presente sembrano dominanti nella lettura della realtà e nelle scelte di vita delle giovani generazioni?

Tratto da:Rivista Lavoro e Post mercato n° 76