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domenica 3 ottobre 2010

Presentata alla 4° edizione di Strada Facendo la "Carta di Terni" sulle politiche sociali





Lo scorso mese di febbraio si è tenuta al Palatennistavolo a Terni la 4° edizione di Strada Facendo, l'appuntamento nazionale promosso dal Gruppo Abele e da Libera sulle politiche sociali.(1)

Molti relatori, appartenenti a varie associazioni, al mondo della politica e del volontariato si sono confrontati dal 5 al 7 febbraio sul presente e sul futuro del welfare nel nostro Paese e hanno sintetizzato i risultati di questi dibattiti nella “Carta di Terni per un nuovo Welfare”, nel tentativo di presentare idee, modelli e strategie per le politiche sociali.(2)

La sfida è davvero ardua, soprattutto in tempi di bilanci magri e di difficoltà nel disegnare nuovi modelli di intervento per i diritti dei cittadini resi ancora più deboli dalla crisi, dalla disoccupazione e dai processi di impoverimento in corso.
Le discussioni e i confronti sono state organizzate in sette “cantieri”, relativi a materie sensibili per il dibattito sociale e politico: lavoro, welfare, abitazione, immigrazione, salute, carcere, giovani).

Le ricerche e i dati che sono stati presentati hanno disegnato i contorni di un paese in cui cresce la vulnerabilità dei soggetti più deboli, a cominciare dai giovani per i quali le regole del mondo del lavoro sono sempre più nel segno della precarietà. Tra i giovani, dai 15 ai 24 anni, i senza lavoro costituiscono il 26%; nell'Unione Europea lo stesso dato si ferma al 21%.

Se si riesce a trovare un lavoro stabile, nonostante l'aumento dei dati sulla disoccupazione, c'è da considerare che i salari italiani sono tra i più bassi d'Europa.
Con stipendi del 17% inferiori alla media dell'area Ocse, sono circa 13 milioni i lavoratori italiani che guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese e circa 6,9 milioni di lavoratori, di euro ne prendono meno di 1.000. Il reddito delle famiglie operaie e degli impiegati è sceso di 1.700 euro dal 2000 al 2008. A fronte, i professionisti e gli imprenditori hanno invece incrementato i loro redditi con oltre 9.000 euro. Ancora meglio è andata ai manager: i loro compensi sono cresciuti del 38%.

Impressionante risulta il peso dell'economia sommersa: il numero di lavoratori irregolari è molto vicino ai 3 milioni, il 12% della forza lavoro nazionale. Il valore stimato del "sommerso" è pari a 92,6 miliardi di euro. La metà dei lavoratori irregolari è impiegata al Sud. Con il primato alla Calabria, con il 15%. Seguono la Sicilia (12.7%); la Campania (12,2%); la Basilicata e la Sardegna con l'11,7%.

Anche la povertà assoluta - quella che riguarda le persone che non sono in grado di acquistare beni e servizi primari - risulta inattaccabile dalle politiche sociali, visto che da anni riguarda il 5% della popolazione (quasi tre milioni di persone....).
Analoga la situazione dei poveri cosiddetti relativi, la cui distanza da quelli assoluti risulta sempre più ridotta.

Una particolare attenzione è stata dedicata in queste giornate di studio anche al mondo delle carceri, sconosciuto e nascosto all'attenzione generale. I dati sono significativi: nei penitenziari italiani sono presenti ben 20.000 detenuti in più di quelli previsti dalle strutture, con esperienze di detenzione degradanti e inumane. Il collasso delle strutture penitenziarie è visibile nelle cifre: poco meno della metà (il 46%) è in attesa di giudizio. A riprova che la giustizia non colpisce i colletti bianchi e i potenti, dei detenuti in custodia cautelare la gran parte sono stranieri, imputati per reati minori o per la violazione di leggi sull'immigrazione. Da ultimo il dato dei suicidi: nel 2009 il record del numero dei suicidi in carcere: 72. L'anno in corso, peraltro, rischia di essere peggiore del precedente.

NOTE
1)Vedi http://www.gruppoabele.org , e http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1.
2)Per un esame più approfondito delle proposte presentate nella “ Carta di Terni” si invitano i lettori ad una lettura diretta del documento. Il documento è visibile qui: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2832.


Tratto da Rivista Lavoro e Post Mercato n° 84

sabato 12 settembre 2009

Un Welfare creato dal basso: il caso delle badanti


Secondo una recente indagine condotta dal Censis, circa il 10% delle famiglie italiane ha in casa una badante, che si occupa di anziani, spesso malati e bisognosi di aiuto e di cure; il sostantivo “badante” è una parola comparsa nel nostro lessico con la riforma della legge sull'emigrazione del 2002 e sta ad indicare, come hanno imparato molte famiglie italiane in stato di bisogno e che hanno affidato a queste donne – in rarissimi casi uomini – tutte le incombenze dell'aiuto alla persona che il Welfare italiano non è in grado di garantire.(1)

Quindi, secondo l'autorevole istituto di ricerca, per 10 famiglie su cento le badanti, insieme alle colf, sono diventate indispensabili. (2)

Il numero delle badanti presente in Italia, regolari e non, è di circa 1,5 milioni di unità, con un aumento imponente negli ultimi sette anni, stimabile al 37%.

Di questo piccolo esercito di collaboratrici familiari, quasi i tre quarti (il 71,6%) è di origine straniera. Il loro orario di lavoro è in media di 35 ore a settimana, con un guadagno netto di poco più di 900 euro mensili.

La maggior parte di queste lavoratrici svolge la sua attività per una sola famiglia; alcune di esse trovano impiego in più famiglie.
E' sul lavoro insostituibile svolto dalle badanti e dalle colf che è cresciuto nel giro di pochi anni un sistema di Welfare privato, innovando dal basso un sistema di protezione sociale che non ha trovato risposte nel sistema pubblico, se non in campo quasi esclusivamente sanitario.

Non ci occuperemo in questo intervento delle delicate questioni legate alla sanatoria che interesserà nelle prossime settimane un gran numero di queste lavoratrici, ora considerate clandestine dalle norme sulla sicurezza, perché prive del permesso di soggiorno. Ma sappiamo che il nostro Paese è specialista in ipocrisia, per cui si lanciano proclami di rigore e di intransigenza e poi, di fronte ad una realtà ben più complessa dei semplici schemini dei demagoghi di turno, si dovrà trovare un rimedio per ovviare alle difficoltà di milioni di persone, continuando nella consueta tradizione delle sanatorie ex post.

Ci vogliamo invece soffermare sulle questioni legate al Welfare e alle profonde modificazioni sociali, culturali e demografiche che la vicenda delle badanti e delle colf ha portato alla luce.

Come detto, il primo punto da valutare è il ritardo che il nostro sistema di welfare sconta nell'affrontare l'invecchiamento della popolazione e nel predisporre reti di sostegno, d'intervento e di aiuto per tutte le persone e la famiglie che devono fronteggiare i bisogni di una popolazione anziana, con specifiche esigenze. La risposta che è stata data fino a qualche anno fa, ritenuta poi insostenibile per le casse pubbliche, è stata quella della lungodegenza nelle strutture sanitarie o dei ricoveri mascherati. Il sistema sanitario, va da sé, non è stato pensato per questo scopo.

Attualmente, le badanti che si sostituiscono alla mano pubblica, statale e locale, costano circa 18 miliardi di euro all'anno, con un flusso di risorse opposto a quello considerato ovvio nei sistemi di Welfare: dalle famiglie verso il sistema economico e la collettività e non viceversa, come dovrebbe essere.
Il ritorno verso le famiglie e le persone bisognose è piuttosto esiguo, legato com'è sostanzialmente alle indennità di “accompagnamento” e alla poca assistenza domiciliare che gli enti locali, con magre risorse, assicurano agli anziani non autosufficienti.

La prospettiva di questi fenomeni di bisogno per gli anziani è di una continua crescita. Sia l'aumento delle aspettative di vita e le migliori condizioni sanitarie sia la diminuzione della fecondità, avranno come conseguenza la diminuzione drastica del numero di adulti in grado di occuparsi di anziani bisognosi di cure, genitori e non.

Come si vede, trattandosi di un processo demografico che è già sotto la nostra esperienza da diversi anni, l'unica risposta che si è riusciti a dare a questi bisogni e a questi fenomeni strutturali è stato il ricorso massiccio all'aiuto delle collaboratrici familiari.
Resta da chiedersi, e lo lasciamo come ultimo punto di questo intervento, quanto l' “invenzione” di un welfare privato e familiare sarà in grado di reggere l'urto di un processo demografico che rende sempre più necessario una sostanziale ripensamento del nostro sistema di Welfare.


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NOTE
1) Con il rinnovo del contratto nazionale del “Settore lavoro Domestico”, dal 1° Marzo 2007 viene applicato il nuovo CCNL per le cosiddette badanti. Una delle grandi novità del nuovo CCNL è l’abolizione del termine “badante” e la sua sostituzione con termini molto più politicamente corretti quali “assistente familiare” o “addetta alla cura della persona”.

2)Vedi http://www.censis.it/. Sono ormai 2 milioni 451 mila le famiglie che ricorrono a un collaboratore domestico o all'assistenza per un anziano o un disabile, ovvero il 10,5% delle famiglie italiane.
Di tutte le persone impiegate in questo servizio, circa tre quarti sono straniere e circa un terzo delle badanti di esse, il 35,6%, vive stabilmente presso la famiglia per cui lavora, dove si occupa dell'organizzazione della vita quotidiana e delle attività di cura: la gran parte (l'82,9%) si dedica alla pulizia della casa, il 54,3% prepara i pasti a pranzo e a cena, il 42,7% si occupa della spesa alimentare per la famiglia, il 49,5% accudisce gli anziani, il 32,4% assiste una persona non autosufficiente, il 28,8% fornisce specifica assistenza medica ad uno o più membri della famiglia. Inoltre, più di un terzo delle badanti straniere può pensare ad un progetto di vita in Italia in quanto si tratta di cittadine di un Paese membro dell'Unione europea. Il resto di esse deve fare i conti con il periodico rinnovo del permesso di soggiorno o si trova in condizione di irregolarità. E ciò, sottolinea il Censis, malgrado si tratti di persone che vivono ormai stabilmente in Italia, in media da 7 anni e mezzo, e svolgono tale attività mediamente da 6 anni e 5 mesi.

domenica 28 settembre 2008

Welfare e carità: social card o tessera di povertà?


Di recente, il governo ha introdotto la cosiddetta social card , una tessera tipo bancomat che verrà consegnata ai pensionati più poveri al momento del ritiro della pensione alle Poste.
Il suo valore, espresso in moneta, è di circa 400 euro e dovrebbe rappresentare un aiuto e un sostegno per l’acquisto di beni alimentari e per far fronte al pagamento delle bollette ( per quella dell’energia elettrica lo sconto sarà del 20%.)
Verrebbe quasi da plaudire all’alzata d’ingegno se le decisioni prese nel CdM del 19/06/08 non provocassero sconcerto ed incredulità.
Lo sconcerto proviene dal merito della decisione presa: con poco più di 1 euro al giorno (!) s’intende combattere contro i drammatici livelli di esclusione e di marginalizzazione di ampie fasce di pensionati e di percettori di redditi minimi. Inoltre, la platea cui è rivolto questo provvedimento – pensionati a basso reddito – non include tutti gli altri “poveri”: precari, incapienti, famiglie numerose con redditi insufficienti, ecc.L’incredulità, invece, viene da ciò che la social card rappresenta in tema di lotta alla povertà, qualificandosi come un impressionante salto all’indietro storico e culturale.
Sembrerebbe un grido d’allarme eccessivo, vista l’esiguità del provvedimento. Qualche volta, però, i grandi mutamenti passano inosservati e le rivoluzioni (restaurazioni) si fanno in sordina.
La teoria che sostiene questo tipo di provvedimenti è quella di un Welfare residuale, in cui i diritti derivano dall’evidenza o dalla dimostrazione dello stato di bisogno. In questo “Stato minimo”, i servizi pubblici non vengono forniti indistintamente a tutti e con prestazioni universalistiche, ma solamente a chi è privo di risorse, previo accertamento dello status di bisogno. Quando si assiste al fallimento del mercato, dove secondo i liberisti ci si procura tutto ciò di cui si ha bisogno, si pone compassionevolmente rimedio con programmi destinati alle fasce di maggior rischio.
Tutte le statistiche più serie sulla crescente diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, con la polarizzazione tra i molto ricchi e i molto poveri, ci indicano con implacabile esattezza l’aumento dei livelli di povertà (assoluta e relativa) nel nostro paese e come la redistribuzione delle risorse tra lavoro e capitale abbia visto crescere in modo impressionante la predominanza del secondo ai danni del primo. (1)
In tutto il corso del XX secolo, con la creazione del Welfare State (1942, ad opera di Beveridge), la povertà come fenomeno sociale – e come problema – ha sempre avuto un riferimento economico e sociale alle “diseguaglianze” prodotte dal mercato e a quelle che gli economisti chiamano con un eufemismo le “diseguali allocazioni delle risorse”. (2)
E’ evidente come la povertà limiti in modo sostanziale i diritti di cittadinanza, oltre ad essere responsabile di privazioni materiali e sofferenze psicologiche.
Con un balzo all’indietro rispetto al compromesso rappresentato dal sistema del Welfare, complesso di norme, di politiche e di istituzioni create per garantire un insieme di reti di protezioni sociale per gli eventi più drammatici (malattia, disoccupazione, ecc.), si prende a modello la politica dello Stato caritatevole, sostituto delle dame di carità e delle organizzazioni religiose di assistenza.
E quale miglior modello del programma statunitense del FSP ? (3)
Negli USA, nello Stato più ricco e potente del mondo, quello in cui manca un servizio sanitario universale degno di questo nome, per ovviare ai problemi di sostentamento alimentare di milioni di persone (4), il Governo ha varato il Food Stamp Program, che ogni mese eroga circa 100 dollari a tutti coloro che non hanno redditi sufficienti per acquistare del cibo “avente elevato valore nutritivo”.
Questi buoni alimentari sono distribuiti sotto forma di carta di credito e sono accettati dalla maggioranza dei negozi. (5)

Torniamo alla social card. La platea dei destinatari stimata nel nostro paese è di circa 1.200.000 aventi diritto. La nuova tessera annonaria, che adesso fa fine chiamare all’inglese social card, da adesso in poi individuerà senza ombra di dubbio i poveri, cui lo Stato porge la sua caritatevole mano, donando, con un piccolo obolo, anche lo stigma del bisogno.
L’eguaglianza democratica, sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, viene in questo modo gravemente compromessa proprio nei suoi fondamenti, nell’idea che le istituzioni devono funzionare con l’obiettivo di garantire la pari dignità di tutti i cittadini.
Se non deve esistere più uno Stato sociale, con prestazioni universali e rivolte a tutti in base ai bisogni primari – alimentazione, salute, istruzione, ecc. – si abbia il coraggio di dirlo, invece di fare battute dubbie su Robin Hood, visto che il prelievo ai ricchi petrolieri sarà certamente pagato, more solito, dai soliti poveri di Sherwood.
I pensionati poveri otterranno qualche piccolo sconto sull’acquisto di generi alimentari o sulla bolletta dell’energia elettrica ma non risulterà evidente che si tratta di uno Stato che è diventato elemosiniere, compassionevole, preoccupato solo di garantire l’anonimato dello sfortunato possessore della social card. Anonimato garantito fino alla cassa del supermarket, probabilmente, quando risulterà chiaro a tutto il quartiere che si ha “quella” carta….Almeno le organizzazioni religiose erano più serie, visto che davano una cornice etica e religiosa alla carità.

I poveri sventurati, colpiti come tutti dal peccato originale, ma con l’aggravante della miseria, provavano almeno un sollievo materiale e un sentimento di riconoscenza; coloro che facevano opere di carità, aiutando gli afflitti, ottenevano un’indulgenza divina nell’altra vita.

Nella nuova era del Welfare residuale, rimane solo un piccolo obolo.
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NOTE
(1)Cfr.http://www.istat.it/salastampa/comunicati/.pdf
(2) Ma il primo intervento risale addirittura al XVI secolo, con le Poor Laws. Sarà il pensiero socialista a riprendere in mano questa tematica, inserendola nella più ampia “questione sociale” e nella questione della proprietà dei mezzi di produzione. Un conservatore “illuminato” come Bismarck, si preoccuperà, nel 1885, di dare il via al primo sistema previdenziale, prototipo di quelli moderni.. Un interessante lavoro di ricostruzione storica è quello di B. GEREMEK, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma-Bari, 2001.
(3) Vedi http://www.fns.usda.gov/fsp/. Altri programmi di aiuto sono, ad es, il Medicaid per i poveri, il Medicare per gli anziani e l'AFDC per le madri sole.
(4) Usufruiscono di questo programma circa 26 milioni di persone. La popolazione degli USA è di circa 300 milioni di abitanti. Da queste cifre, si evince che circa 1 cittadino Usa su su dieci ricorre a questo programma. Ma il FSP pensa anche ai migranti e ai poveri di altre nazionalità. Sul sito sono disponibili le spiegazioni per usufruire del programma in 34 lingue.

domenica 10 agosto 2008

La condizione dei minori in Italia – Pubblicato il 4° rapporto del Gruppo CRC

Anche quest’anno, in occasione dell’anniversario della ratifica della CRC(1), sottoscritta dall’Italia nel maggio del 1991, il Gruppo CRC Italia, composto da 73 organizzazioni ed associazioni, ha pubblicato un rapporto sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia.(2)
Un dato impressionante balza prepotentemente all’attenzione di chi si avvicina a questi dati: un minore su quattro, nel nostro Paese, è esposto al rischio povertà. In termini percentuali, “in Italia è esposto a rischio di deprivazione il 24% dei minori.
Tale percentuale – aggiunge il rapporto - sale al 35% se si considerano i minori che vivono in famiglie numerose e raggiunge il 40% nel caso di minori che vivono in famiglie monoparentali.
I minori a rischio non sono tanto figli di genitori disoccupati, ma si trovano spesso in famiglie con entrambi i coniugi lavoratori ma i cui bassi livelli di reddito non riescono ad essere una garanzia di benessere.”
Prima di procedere ad un’analisi più dettagliata dei concetti di povertà e di deprivazione, è opportuno fare una breve precisazione.Anzitutto, dati così allarmanti contribuiscono a gettare una luce fosca sulla sofferenza del sistema famiglia, preso nel suo insieme e nel dettaglio di tutte le sue complesse manifestazioni. L’immagine della famiglia idealtipica, quella che hanno in mente gli ideologi maldestri della famiglia pre-industriale, deve essere scomposta e aggiornata secondo i criteri di un’analisi materiale e simbolica che tenga conto di un panorama sociale completamente mutato.(3)
A considerare una semplice fenomenologia del variegato universo delle situazioni di convivenza e di comunità di affetti, ci sono infatti molte famiglie, tante quante sono le condizioni di vita nella società postindustriale e tante quante sono le forme di relazioni affettive: quelle mononucleari, quelle multigenerazionali, quelle con un unico genitore divorziato, quelle numerose, quelle numerose con monoreddito, quelle degli incapienti, quelle composte da fratelli che condividono la stessa casa, ecc.I problemi di classificazione si specchiano nelle difficoltà d’intervento delle politiche pubbliche e nei dibattiti che si raccolgono intorno al tema, drammaticamente generico, degli aiuti alle famiglie. Fin qui, occorrerà pur dirlo, ha funzionato solo il welfare familiare.
La famiglia multi-generazionale allargata, laddove esiste, quella in cui convivono nonni, figli e nipoti, con i suoi trasferimenti in beni e servizi compensa lo scarso e insufficiente intervento dei governi a supporto dei genitori che vivono in situazioni di vulnerabilità lavorativa o economica.Dunque la famiglia allargata, anch’essa sempre più in difficoltà, risulta davvero determinante nel creare una rete di protezione aggiuntiva per ammortizzare le difficoltà economiche, organizzative e di cura parentale. (4)
Rimangono enormi problemi per chi non si trova in questa condizione.
Anche avere dei figli comincia a risultare un “lusso” e non deve davvero stupire se i tassi di natalità dell’Italia sono tra i più bassi del mondo. Quel che manca è un adeguato livello di protezione sociale strutturata, pubblica, con dei meccanismi istituzionali ed amministrativi in grado di sostenere i livelli di vita delle famiglie e provvedere con politiche redistributive ad un reddito minimo in caso di disoccupazione o di un adeguato sostegno al reddito di coloro che hanno dei figli.(5)

A livello europeo, al fine di comparare i dati tra sistemi economici e sociali tra loro molto differenti, si è ricorso ad una serie di indicatori ricavati dai livelli di reddito presi tra i Paesi aderenti all’OECD. Così, nell’ambito EU, l’indicatore “rischio di povertà” viene definito come :a) l’attestarsi al 60% del livello reddito medio nazionale;b) il reddito è la risultante della somma dei guadagni di tutti i membri della famiglia, compresi i trasferimenti sociali individuali o comunitari e i redditi da capitali; c) il reddito è reso equivalente sulla base della scala OECD per tenere conto dei differenti bisogni tra adulti e minori, la cui ampiezza e composizione riflettono gli standard di vita;d) le percentuali di rischio di povertà nazionali analizzati congiuntamente con la soglia di povertà relativa espressa dai livelli di potere di acquisto del reddito mediano di ogni Paese equivalenti tra le differenti monete.
Secondo il rapporto Istat annuale del 2007, i cui dati certi si riferiscono al 2005, “Il reddito netto delle famiglie residenti in Italia nel 2005 è pari in media a 2.300 euro mensili, inclusi gli effetti dei trasferimenti monetari. […] Tuttavia, prosegue il rapporto, a causa della distribuzione disuguale dei redditi, se si fa riferimento al valore mediano, il 50 per cento delle famiglie ha guadagnato meno di 1.900 euro al mese.“
E’ una cifra che non ha bisogno di troppi commenti, soprattutto se si considera che essa si lega anche alle caratteristiche socio-demografiche dei componenti della famiglia, che il Rapporto 2007 analizza in dettaglio. “La distribuzione del reddito equivalente – precisa il Rapporto - offre un’ulteriore informazione sul livello di disuguaglianza: il venti per cento delle famiglie con i redditi più bassi percepisce circa l’8 per cento del reddito totale; come prevedibile, vi si concentra l’80 per cento delle famiglie in cui non sono presenti percettori di reddito da lavoro o da pensione. Per contro, il venti per cento delle famiglie con i redditi più elevati percepisce una quota pari a circa il 38 per cento e ha un reddito medio equivalente circa cinque volte superiore.” (6)
Mettendo insieme i due indicatori, si può avere una stima abbastanza precisa della reale condizione di vita di moltissime famiglie reali, non quelle che immaginano i pubblicitari o gli ideologi. Parlare della condizione dei minori, dunque, è come illuminare un altro lato delle questioni che riguardano le condizioni delle famiglie e dei livelli della spesa sociale idonei a combattere le disuguaglianze. Si tratta, in sintesi, di riuscire a porre in primo piano le relazioni e le differenze tra povertà, vulnerabilità ed esclusione sociale.
Un così alto livello di disagio minorile, anche al di là della stessa relazione tra il reddito familiare e il benessere dei minori, si riflette su tutte le dimensioni non economiche della vita materiale e dell’inclusione/esclusione sociale e che considerate nel loro insieme danno una misura realistica della qualità della vita.S’intende qui, per citarne solo alcuni, una maggiore esposizione ai rischi sanitari, vivere in condizioni abitative precarie e inadeguate, essere maggiormente esposti al rischio di abusi, avere maggiori probabilità di abbandono scolastico, correre il rischio elevato di scarso sviluppo delle proprie potenzialità e avere forti probabilità di carriere lavorative a basso salario, ovvero di arrivare nell’età adulta a infoltire le file dei working poor. (7)________________________________
Note

(1) Acronimo di “Convention on the Rights of the Child” la cui traduzione ufficiale in italiano è «Convenzione sui diritti del fanciullo»; in Italia si preferisce utilizzare la denominazione di uso corrente «Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza». Il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Gruppo CRC) è un network di associazioni italiane che opera al fine di garantire un sistema di monitoraggio indipendente sull’attuazione della CRC e delle Osservazioni finali del Comitato ONU in Italia. Questo network è coordinato in questa ricerca dall’associazione Save The Children.
(2) 4° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza in Italia. 2007-2008. E’ visibile al seguente indirizzo: http://www.savethechildren.it/2003/download/Pubblicazioni/imp_Rapporto_CRC.pdf
Nel 2007 la Commissione Europea e gli Stati membri hanno eletto la povertà minorile come una tematica prioritaria del Metodo Aperto di Coordinamento sulla protezione e inclusione sociale. Tale metodo ha l’obiettivo di istituire modalità di confronto e di scambio di esperienze in tema di esclusione sociale per creare e definire un set di indicatori concordati su scala europea. Vedi http://europa.eu/scadplus/glossary/open_method_coordination_it.htm
(3) Vedi C.SARACENO, M.NALDINI, Sociologia della Famiglia, Il Mulino, Bologna, 2007, 2° ed. Sulla difficoltà di definire l’oggetto famiglia, si noti la definizione operativa che ne propone l’ISTAT: “Famiglia: insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. La famiglia può essere costituita anche da una sola persona.” (Tratto da http://www.istat.it/dati/catalogo/italiaincifre2008.pdf)
(4)Ancora dal 4° rapporto CRC: “ La vera preoccupazione è che i mutati orizzonti del mercato del lavoro […] stiano già indebolendo questa rete di protezione informale e che nel contempo non ci sia la costruzione di un adeguato sistema pubblico di protezione.”
(5) Secondo questo rapporto, infatti, “esiste una correlazione forte tra il rischio di povertà minorile e l’investimento percentuale in spesa sociale. Facendo riferimento al Prodotto Interno Lordo, escludendo le pensioni, la media europea di investimento sociale si attesta intorno al 14% ed ad essa corrisponde un 19% di rischio di povertà minorile; nel nostro Paese dove si investe meno del 10% il rischio di povertà minorile balza al 24%. L’Italia rientra dunque nel gruppo dei Paesi europei in cui si rileva una bassa efficienza di spesa sociale (non dedicata alle pensioni) e alti tassi di povertà minorile.”(6)
Vedi http://www.istat.it/dati/catalogo/20080528_00/
(7) Cfr. SEN, AMARTYA K., La Disuguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna, 2000. A proposito dell’abbandono scolastico, il 12 giugno, durante le celebrazioni per la giornata mondiale contro il lavoro minorile, dedicata quest’anno proprio al tema dell’istruzione, sono state diffuse delle cifre impressionanti sul lavoro minorile: nel mondo ci sono 218 milioni di minori tra i 5 e i 17 anni costretti a lavorare. Così il Direttore Generale dell’ILO, Juan Somavia: “ “We must work for every child’s right to education so no child has to work for survival. The goal is quality education for children and decent work for adults”.Vedi http://www.ilo.org