giovedì 31 marzo 2011

Togliersi la vita per mancanza di lavoro. Centralità del lavoro (seconda ed ultima parte)

Nella prima parte di questo intervento abbiamo sottolineato (V. LPM n°94) come sia ancora difficile collocare concettualmente il fenomeno dei suicidi per mancanza di lavoro e ci siamo rivolti per così dire ai classici sull’argomento per tentare una ricognizione generale e per cercare qualche elemento di comprensione e la presenza di aspetti inediti nell’emergere di questo fenomeno.

Quanto a Durkheim, che abbiamo citato nella prima parte di questo intervento, per il sociologo francese ci sono tre tipi fondamentali di suicidio.

Il primo tipo, il suicidio cosiddetto egoistico, si manifesta quando le persone che lo compiono sono così autocentrate da non poter ammettere di non riuscire a raggiungere gli obiettivi che si sono posti. Più elevati sono gli obiettivi, maggiori sono i rischi.

Il secondo tipo, diverso dal precedente, è riferibile alle personalità ben inserite nel contesto sociale e che possono arrivare a compiere questo tipo di gesti per soddisfare una qualche specie di imperativo sociale, superiore al principio di conservazione, come ad es. per i capitani delle navi che affondano insieme alle imbarcazioni.

Il terzo tipo, quello che ha dato giustamente celebrità al pensatore francese, vero punto di riferimento imprescindibile per tutti gli studi sull’argomento, è il cosiddetto suicidio anomico, tipico delle società moderne, che statisticamente collega il fenomeno dei suicidi con i cicli economici e con le condizioni familiari e professionali degli individui. Le prove empiriche dimostrano con le dovute evidenze statistiche che ad es. ci si toglie meno la vita fra le persone sposate rispetto ai celibi, perché la famiglia, la religione, così come l’ appartenenza professionale, fa si che gli individui facciano parte di gruppi la cui coesione e il senso di appartenenza rinforza in ognuno le ragioni per vivere, offrendogli un indispensabile ambiente umano più di quanto non neghi la sua espansione e non ne limiti le capacità.

Per l’autore, che ha in gran conto la coesione e la persistenza dei sistemi sociali, questi fenomeni dipendono dalle fasi di trasformazione e di frantumazione dell’equilibrio sociale. E’ ciò che egli chiama anomia, rottura degli equilibri della società e sconvolgimento dei suoi valori.
E’ vero che il determinismo sociale pensato dall’autore stride con la sensibilità corrente che attribuisce alla volontà individuale l’ultima voce in capitolo per ogni evento. Ma anche in questo caso si tratta di un determinismo (e di un’ideologia) a parti rovesciate.

Per uscire da questa sterile contrapposizione, e forse cogliere qualche aspetto delle novità che presentano questi eventi tragici, va avanzata l’idea che se è vero che i legami sociali sono determinanti per spiegare scelte così estreme, è anche vero che entro certi limiti gli individui “scelgono” in un repertorio che muta secondo i tempi e le prospettive dei particolari contesti sociali.

In fondo è quello che i vari social network portano alla luce: gli individui condividono con altri rappresentazioni collettive, micro-ideologie, credenze e stili di vita che creano la fisionomia di una forma di vita specifica nella quale ci si sente a casa propria, a volte ben più che nel proprio ambiente familiare, perché in quest’attività si esercita la socializzazione e la realizzazione dell’identità, frutto di una più o meno faticosa autocostruzione.
Quindi bisogna sfuggire anzitutto all’idea che vi sia una sorta di automatismo economicista, per cui nei momenti di crisi come quello attuale gli anelli più deboli, la forza lavoro più marginale e meno ricollocabile, sia espulsa dai cicli produttivi e abbandonata a sé stessa. Questa marginalizzazione sarebbe la causa principale del fenomeno dei suicidi per mancanza di lavoro. Che vi sia anche questo aspetto non ci possono essere dubbi. Qualche dubbio rimane se esso sia da considerarsi come unico.

Come abbiamo cercato di dimostrare, l’attività lavorativa coinvolge l’intera esistenza degli individui, ne modella la fisionomia e le aspettative, aiuta a sostenere psicologicamente e socialmente legami profondi con le altre persone, oltre a procurare un reddito per vivere. Accanto alla sfera della riproduzione (reddito) c’ è una sfera della produzione di senso (simbolica) che è altrettanto importante. La perdita del lavoro, insomma, non è solo perdita del reddito. E’ perdita d’identità e di reputazione sociale, perdita di senso e mancanza di futuro e di progettualità. Quando si perde il lavoro, si perde tutto questo, non solo il reddito.

E veniamo ad un ultimo punto, cui dedicheremo solo poche battute e che avrebbe bisogno di un più ampio spazio per essere sviluppato ed approfondito. Il tema è quello della politica economica, vale a dire quella branca del sapere caduta ormai in gran sospetto e sempre più osteggiata dai cultori del pensiero unico del mercato e della competizione riequilibratrice a lungo termine. Citiamo, per sgombrare il campo da equivoci, la celebre frase keynesiana: “a lungo termine saremo tutti morti”.

La domanda con la quale chiudiamo questo intervento è la seguente: può una politica economica degna di questo nome, non quella surrettiziamente condotta dalle agenzie di rating e dalle insindacabili scelte dei mercati (1) , ma una seria attività di analisi e di correzione delle storture degli automatismi economici, fare propri ed includere nei suoi strumenti analitici la centralità del lavoro come elemento prioritario rispetto al profitto e alla logica degli investimenti redditizi?



NOTE
1) Basti pensare che è invalsa ormai l’abitudine di valutare la redditività di un’impresa e degli investimenti ogni trimestre (!). Se vi sono forti oscillazioni dei mercati o difficoltà di approvvigionamento, per salvaguardare la remunerazione degli azionisti, si procede sempre più frequentemente con l’espulsione della forza lavoro, in modo da riequilibrare i conti e assicurare gli utili.





Tratto da Rivista Lavoro Post mercato n° 96

sabato 5 marzo 2011

Summertime

Sarà perchè ho voglia di estate e, d'accordo con Proust coi ricordi a catena, ho seguito l'associazione mentale di Summertime, Porgy and Bess e poi di Ella Fitzgerald.

E allora per condividere con chiunque visiti questo blogghetto, ci metto il testo della canzone
Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high

Your daddy's rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry

One of these mornings
You're going to rise up singing
Then you'll spread your wings
And you'll take to the sky

But till that morning
There's a'nothing can harm you
With daddy and mamma standing by


e il video


Buon ascolto