sabato 14 febbraio 2009

Barack Hussein Obama. Un presidente nuovo nell'era della crisi globale


Pochi giorni fa, il 20 gennaio, dopo aver ripercorso idealmente il viaggio in treno da Philadelphia a Washington di Abraham Lincoln, con il consueto gusto tipicamente americano per le celebrazioni e i richiami simbolici, si è insediato il 44° Presidente degli Stati Unitid'America, Barack Hussein Obama.
Com'è usuale nella democrazia statunitense, il voto popolare che ha portato all'elezione dell'uomo più potente del mondo – come spesso è stato definito il Presidente Usa quanto a potere politico e militare – ha rovesciato i pronostici che davano per favorita la senatrice Clinton e ha premiato a sorpresa un giovane uomo di colore, sconosciuto ai più.
Se è vero che i processi storici non coincidono del tutto con le grandi personalità carismatiche e demiurgiche ma sono invece il frutto di un lavorio sotterraneo di spinte e controspinte che avvengono ad un livello più profondo, nel quale si scontrano e si incontrano le scelte e le omissioni dettate dal succedersi degli eventi, è doveroso interrogarsi sulla natura e sulla peculiarità dell'elezione di uno sconosciuto senatore dell'Illinois allo scranno di Presidente degli USA.
Poiché possiamo ritenere che l'elezione di Obama possa costituire un criterio di giudizio e di seria valutazione sulla qualità delle democrazie materiali di uno dei paesi guida dell'Occidente, vogliamo provare ad elaborare alcune riflessioni sui processi storici in corso per valutare pragmaticamente alcuni temi che ci interessano da vicino quali la mobilità sociale, i processi di inclusione ed esclusione sociale, i rapporti tra tecnologia e politica e i mutamenti della governance globale nell'epoca della crisi attuale.

1.Per quanto sia abusata come immagine, la conquista della Presidenza da parte di Obama, ha mostrato come “l'ascensore sociale” abbia funzionato ancora una volta nel paese delle opportunità. L'american dream si è realizzato anche per il figlio di un keniota e di una studentessa bianca del Kansas, vissuto per lungo tempo alle Hawai, in una landa periferica degli Usa, che in virtù del suo talento e di alcune munifiche borse di studio, ha potuto laurearsi ad Harvard e poi presentarsi, giovanissimo, al Senato, riuscendo ad ottenere l'elezione. Addirittura, è riuscito a scalzare l'establishment del partito democratico e a conquistare la “presidenza dell'Impero”. In una cultura fondata sulla competizione e sull'individualismo, l'ascesa del giovane senatore si connota come una riprova del darwinismo sociale, diventando l'esempio di un meccanismo selettivo efficiente, peculiare e del tutto radicato in quella cultura – specie se confrontato con i bizantinismi della politica di casa nostra. Fin qui, dunque, non sembrerebbe esserci niente di nuovo. Non bisogna però dimenticare che la sua elezione ha infranto un tabù che sembrava inattaccabile, vale a dire la possibilità che un uomo di colore fosse eletto alla Presidenza degli USA. La grande partecipazione popolare, pur con i farraginosi meccanismi elettorali americani, in questo evento che non è esagerato definire storico, ha spazzato via in modo incontrovertibile questa lunghissima e drammatica conventio ad excludendum. Ciò a dimostrazione che la politica, nelle sue espressioni migliori, e basta per questo scorrere il discorso di insediamento di Obama alla Casa Bianca, non è fatta solo di ragioni, di interessi o solo di istituzioni: le passioni collettive possono avere un grande peso, così come la speranza e le visioni che sono in grado di sporgersi oltre il tempo presente, aprendo prospettive nuove per il futuro. Il geniale slogan di Obama, sta lì a dimostrarlo: “yes, we can”, “si può fare”.

2.Ciò significa che l'annosa questione dell'integrazione razziale, con l'elezione di Obama, è del tutto risolta? Certamente no. E' altrettanto certo che possiamo ipotizzare che qualcosa di profondo si sia spostato nella psicologia collettiva del popolo americano se il colore della pelle non costituisce più un criterio di esclusione nella corsa alla Casa Bianca. Di qua dall'Oceano risulta difficile cogliere in tutta la sua rilevanza questa questione dell'integrazione razziale dopo secoli di guerre e di conflitti. La dottrina del melting pot, della fusione razziale, ha rappresentato per molto tempo l'unico appiglio in grado di offrire uno scenario di coesistenza tra gruppi etnici differenti. Per quanto sia da considerare piuttosto in crisi, a causa delle imponenti ondate migratorie degli ultimi decenni, questa teoria aveva ipotizzato che l'America, quale terra delle opportunità e della democrazia, fosse in grado di funzionare come un gigantesco contenitore in grado di trasmutare alchemicamente i conflitti e le incomprensioni, l'odio e il razzismo, creando una società più giusta e più equa. Il sogno di Martin Luther King sembra essersi avverato, almeno per le comunità afroamericane. (1)

Ma mentre il pastore King pensava più alla fratellanza e alla convivenza fra diversi, la vittoria di Obama sembrerebbe la prova della forza dell'eguaglianza democratica. La sua storica vittoria è cominciata quando la schiavitù è stata abolita, ed è proseguita sul doppio binario delle regole e delle istituzioni e quello dei rapporti sociali, in un processo ideale che avanza sulle gambe di persone e collettività che rivendicano la propria dignità e l'esigenza di vivere senza conflitti o privilegi assegnati.

3.Oltre alla questione della convivenza etnica e ai meccanismi di rappresentanza, sembra esserci un altro elemento che connota l'elezione di Obama come un momento storicamente rilevante: il rapporto maturo e ormai irreversibile tra Internet, le nuove tecnologie di comunicazione e la politica. Forse non è stato abbastanza sottolineato dai media tradizionali, ma Obama, da accorto conoscitore delle nuove tecnologie di comunicazione, ha usato in modo magistrale la tribuna a basso costo rappresentata dalla Rete delle reti, sfruttandone le capacità di connessione e le sue caratteristiche “virali”. Occorre dunque aggiornare la teoria classica di Lazarsfeld, che aveva studiato la capacità di propagazione delle idee politiche e delle preferenze elettorali attraverso i cosiddetti opinion leaders, appartenenti all'elite sociale e culturale. Con la proliferazione dei nuovi media e della crescente interconnessione sociale, questo schema deve essere rivisto, dato che adesso, in linea teorica, gli opinion leaders coincidono con coloro che hanno accesso alla Rete e che hanno adesso la possibilità di far conoscere le loro opinioni. Una cifra risalta alla nostra attenzione: attraverso Internet, l'attività di fund raising di Obama ha raccolto circa 230 milioni di dollari, polverizzando il record di un altro candidato presidenziale, non eletto, Howard Dean; ma la questione ancora più importante è che le donazioni raccolte hanno coinvolto un numero imponente di cittadini e di elettori, che vi hanno partecipato versando magari solo pochi dollari. (2)
Mentre nel nostro paese ci dibattiamo inutilmente da decenni sul finanziamento della politica, nonostante vari interventi legislativi e un referendum mai rispettato, si ricorre allegramente ai fondi pubblici per finanziare dubbie imprese politiche ed editoriali, negli Usa la Rete ha offerto all'outsider Obama la possibilità di raccogliere somme imponenti con piccole donazioni di cittadini comuni. Il nuovo presidente è riuscito ad accorciare la distanza tra cittadini ed istituzioni, lanciando anche la sfida di mettere online la Presidenza. Tutti gli sms e le mail, i messaggi sui social network hanno dato carburante ad una rincorsa vincente e fin qui ancora inedita, tanto che si è parlato di “modello mediatico alternativo”.(3)
Secondo Macon Philips, direttore della sezione New Media della Casa Bianca, l’azione del governo Obama su internet si articola secondo tre aspetti: comunicazione, trasparenza e partecipazione. Persino il sito della Casa Bianca si è “obamizzato”. Come afferma in modo inequivoco il nuovo Presidente nel post inaugurale del primo blog presidenziale, “questo è solo l’inizio del nostro impegno per dare a tutti gli americani una finestra sull’operato del governo”.

4. Un ultimo punto merita di essere messo a fuoco, prima di passare alla prova dei fatti, quando la durezza delle decisioni e l'imprevedibilità delle contingenze costringeranno il giovane Presidente a misurarsi concretamente con una crisi globale e drammatica. Se è del tutto evidente che la crisi ha il suo epicentro negli States, è assai probabile che gli interventi presidenziali avranno come focus la politica interna, prima ancora di quella internazionale, modificando così in modo strutturale la consueta centralità americana nello scacchiere geopolitico mondiale. E tuttavia, la natura di questa crisi, l'evidente riprova di una globalizzazione che è ormai diventata l'orizzonte comune, rende più sfumati i confini tra ciò che possiamo intendere come politica interna o politica estera. Ciò che gli Usa sceglieranno di fare da qui ai prossimi mesi per risollevare la loro economia avrà conseguenze dirette e profonde sulle economie del resto del mondo; parimenti, gli approcci per risolvere i focolai di crisi e le guerre in corso, avranno un effetto duraturo e altrettanto profondo sullo stato dei nuovi rapporti tra gli Stati Nazione.

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Note

1)In questo momento di pacificazione (o semplice tregua?) tra bianchi e e neri non vanno dimenticati gli scontri feroci e le guerre a bassa intensità degli anni passati. Oltre al pastore Martin Luther King, ucciso per le sue idee di fratellanza, non bisogna dimenticare che anche la figura controversa di Malcom X e il Movimento delle Black Panthers hanno costituito un momento storicamente significativo dell'identità della comunità afroamericana.
2)Questo non deve oscurare il fatto che il meccanismo elettorale statunitense per le elezioni presidenziali sia enormemente dispendioso.
3)Nel vecchio modello il presidente parla al popolo in televisione e la gente risponde tramite i sondaggi; nel nuovo modello la comunicazione avviene online, ed è bidirezionale. Obama vanta un milione di “amici” su MySpace, oltre 3,7 milioni di sostenitori sulla pagina ufficiale di Facebook (circa 700.000 dei quali aggiuntisi dopo l’elezione), mentre durante la campagna elettorale è stato messo insieme un database di 13 milioni di indirizzi e-mail. Il grande lavoro innovativo svolto dallo staff di Obama farà scuola sia per quanto riguarda la campagna elettorale che per il passaggio di consegne tra elezione e insediamento. Vedi http://my.barackobama.com/page/user/login?successurl=L3BhZ2UvZGFzaGJvYXJkL3ByaXZhdGU=
In soli due mesi e mezzo Change.gov (http://change.gov/) il sito che lo staff di Obama ha realizzato tra l’elezione e l’insediamento per comunicare coi cittadini - è forse andato anche oltre, con una piattaforma di comunicazione e di confronto aperto, costantemente aggiornato sull’operato del gruppo al lavoro impegnato nelle operazioni di transizione.

Usi e significati del termine globalizzazione (seconda parte)


Come si è detto, per alcuni studiosi, il punto d'avvio dei processi di globalizzazione è collocabile nell'ultimo scorcio del XX secolo. Vi è un altro gruppo di studiosi che retrodatano la globalizzazione economica di vari secoli, per quanto sia generalmente accettato che l'integrazione economica a noi contemporanea, pur non essendo un fenomeno del tutto nuovo, presenta proprie peculiari caratteristiche che la differenziano dalle epoche storiche precedenti.

Storicamente, quindi, la globalizzazione economica non è un fenomeno completamente inedito. L'età mercantile, intorno al XVI secolo, ne è stato uno dei primi fenomeni di carattere transnazionale. Nella storia a noi più prossima, si può parlare di almeno altri due periodi precedenti quello presente, segnati da fenomeni di intensa integrazione economica mondiale:
a) il primo periodo si colloca nella seconda metà del XIX secolo , e va dalla prima rivoluzione industriale fino allo scoppio della I Guerra Mondiale (1914), con l'affermazione del sistema capitalista in Europa, attraverso una fase d'intensa espansione extra-continentale delle attività economiche e della sfera d'influenza politica dei paesi europei.
b) il secondo periodo è collocabile tra le due guerre mondiali (1919-1939), con la ripresa delle attività economiche su scala internazionale, che fu molto rapida ed intensa dopo i conflitti e le distruzioni legati al conflitto del 1914-18.
Peraltro, come detto, la globalizzazione contemporanea presenta alcuni tratti specifici, per intensità e qualità, che sono oggetto attualmente di particolare attenzione.

Uno dei più evidenti e controversi riguarda la cosiddetta finanziarizzazione dell'economia. Essa sta ad indicare la crescente importanza quantitativa e qualitativa del settore finanziario accanto ai settori produttivi dell'economia, nel senso che l'attività di imprese e consumatori dipende sempre più strettamente dalla possibilità di ottenere finanziamenti, e il comportamento dei manager è sempre più condizionato dalle valutazioni dei mercati finanziari e degli intermediari finanziari globali.
Su questo punto sarebbe bene sgombrare il campo da un grossolano equivoco che pare rimbalzare in molte analisi frettolose della grande crisi che le economie mondiali stanno attraversando in questo fine 2008, dopo la deflagrazione della bolla immobiliare statunitense. Si ritiene, infatti, che la crisi abbia colpito in primo luogo il settore finanziario e che solo dopo, in un secondo momento, essa si propagherà, come un incendio, al settore dell'economia reale. E' una visione a nostro avviso non all'altezza della comprensione del fenomeno.
Anzitutto, la crescente importanza del credito nell'economia non fa che portare a compimento la sua continua terziarizzazione, cioè l'aumento del ruolo dei servizi rispetto al settore manifatturiero. L'inceppamento del meccanismo che lega il credito all'industria e ai settori produttivi è dovuto ad una gigantesca crisi dei redditi e dei salari, nascosta e spostata nel tempo col credito facile. Interi settori del ceto medio che non potevano aspirare all'accesso a beni di consumo durevoli (case, automobili, ecc.) hanno trovato nel settore creditizio un'occasione per vivere al di sopra delle proprie possibilità, rinviando al futuro il pagamento dei debiti crescenti. Stupisce, semmai, che si ritenga il settore finanziario come un settore estraneo, sovrastrutturale, rispetto al sistema produttivo stesso. Esso è consustanziale al sistema di accumulazione della ricchezza, ne è la linfa vitale, è il meccanismo che fisiologicamente assicura l'allocazione del risparmio. E' la sua gestione, lasciata ad un'élite di tecnici sconosciuti e potenti, condotta con spregiudicatezza e smania di ricchezza facile, che ha provocato lo sconquasso che vediamo sotto i nostri occhi. E' il fallimento dei meccanismi di controllo sulla gestione del credito, che hanno portato al disastro attuale, con il collasso definitivo di tutti i sistemi di governance che sin qui avevano assicurato, dai tempi di Bretton Woods, un sistema relativamente stabile.

La crisi, inoltre, sembrerebbe risiedere nella enorme capacità produttiva del sistema manifatturiero e nell'impossibilità di sostenerla dal lato della domanda, da parte dei consumatori. Il sistema è stato drogato con questo meccanismo: alta capacità produttiva - bassi salari - credito facile - creazione di bolle speculative. L'immissione di denaro pubblico in questo meccanismo, comunque, non ne altera il funzionamento perverso, come mostrano i continui richiami un po' isterici al consumo per fermare la crisi. Stare all'altezza delle crisi, storicamente, ha sempre significato trarne le dovute lezioni, come sembra aver capito il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ha pronunciato un ispirato discorso in cui, tra le altre cose, si invitava ad un recupero della sobrietà e si preannunciava una decisa svolta nel corso da imprimere allo sviluppo economico. Si può ritenere che l'epicentro della crisi non sia la bolla speculativa – che l'ha portata a compimento, semmai – quanto di un sistema produttivo e di consumo che deve essere strutturalmente ripensato. E' il sistema della glorificazione del PIL che deve essere ripensato alla radice.

Altro elemento peculiare dei processi di globalizzazione in corso – è doveroso conservare la cautela metodologica necessaria, quando si tratta di processi ancora in corso e non conclusi – è l'avvento di quella che è stata definita società della conoscenza o network society, che sposta sull'informazione, sulla conoscenza tecnica e sulle capacità individuali la leva per l'efficienza in campo economico e per la creazione di valore, evidenziando quella che è stata definita la rivoluzione dei beni immateriali. Basti pensare che alcune società che fanno parte del settore cosiddetto dot.com, vale a dire quelle legate alle telecomunicazioni sia per le strutture hardware che per il software, hanno una capitalizzazione superiore a quella del settore manifatturiero. In tal modo si prosegue, come detto, in quella progressiva erosione della centralità del settore manifatturiero e all'aumento d'importanza in termini di creazione di valore del settore terziario avanzato.

Anche il consueto rapporto tra economia e territorio sembra investito di cambiamenti strutturali. Se per molto tempo siamo stati abituati a considerare come elementi del paesaggio le fabbriche, i capannoni, i laboratori, i piccoli esercizi commerciali, negli ultimi due decenni l'inasprimento della concorrenza nei settori esposti alla competizione mondiale, il tumultuoso allargamento dell'arena della competizione globale, hanno portato ad una iper competizione e ad una progressiva perdita d'importanza della collocazione geografica degli insediamenti produttivi, tanto da aprire un inedito contenzioso sull'identità dei beni e dei servizi prodotti e sulla loro collocabilità e tracciabilità. Per evitare la perdita d'identità dei beni e dei territori che per lungo tempo hanno legato la loro riconoscibilità proprio a questo legame del tutto peculiare, sono nati dei movimenti culturali, come ad esempio lo slow food, che hanno lanciato un allarme sulla perdita di saperi, di conoscenze e di qualità causati dalle produzioni industrializzate su larga scala. Più in generale, si è fatto avanti il cosiddetto glocal, quell'ibrido di locale e globale che intende tenere insieme la dimensione globale data dalla facilità di circolazione delle informazioni e la specificità dei localismi e la loro infungibilità. Come si è visto in questi anni, dall'ambito strettamente economico, la tendenza al glocal si è via spostata dalla circolazione dei beni e dei servizi anche in ambito politico, creando una reazione identitaria, nazionalista o di vero e proprio fondamentalismo identitario, come nel caso degli scontri di civiltà, contro i processi di indebolimento delle barriere culturali e religiose, in un mondo che scolora i suoi confini e tende a diventare sempre più uniforme. Non è difficile ipotizzare che i conflitti prossimi venturi che ci troveremo di fronte saranno sempre più legati a questioni identitarie e di affermazione di sé – in senso culturale, religioso, politico, ecc – piuttosto che di fronte ai tradizionali conflitti per le materie prime e per il controllo dei territori e dei flussi di ricchezza attraverso la potenza militare. Anche il concetto di terrorismo va sicuramente rivisitato ed ampliato, dovendo tener conto di questa dimensione ormai tipica dei processi di globalizzazione in corso. Il presumibile allargamento dei conflitti, inoltre, potrebbe portare anche alla coesistenza tra vecchie e nuove occasioni di conflitto e ad una loro interazione inedita delle cause generatrici di violenza.

(continua)

sabato 7 febbraio 2009

Sommario Rivista Lavoro e Post Mercato n° 55

Lavoro e Post Mercato
Quindicinale telematico a diffusione nazionale a carattere giornalistico e scientifico di attualità, informazione, formazione e studio multidisciplinare nella materia del lavoro

vedi la rivista completa

Rivista n. 55 - del 01-02-2009

Sommario

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Argomento: Laboratorio sociale

Cittadino oggi: gli strumenti di pagamento elettronici

I sistemi di pagamento sono transazioni elettroniche di denaro e di informazioni che possono avvenire in reti aperte o chiuse.

Per “transazione elettronica” si intende quella fase comples...

La Redazione

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Argomento: Laboratorio sociale

Ad Israele ed all'Eurabia non piace un Papa che annuncia il Vangelo

Tutti contro Benedetto XVI, potrebbe essere il titolo di un "libro" o meglio di un "film" già visto da quando Joseph Ratinger è stato eletto successore di Pietro. Sia chiaro a SS G...

Diego Piergrossi

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Argomento: Laboratorio sociale

Barack Hussein Obama. Un presidente nuovo nell'era della crisi globale

Pochi giorni fa, il 20 gennaio, dopo aver ripercorso idealmente il viaggio in treno da Philadelphia a Washington di Abraham Lincoln, con il consueto gusto tipicamente americano per le celebrazioni e i...

Antonio M. Adobbato


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Argomento: Formazione

Commercio elettronico: gli e-marketplaces

Gli e-marketplaces sono luoghi di incontro tra una pluralità di soggetti compratori e venditori; svolgono, cioè, una funzione di “mercato virtuale”.

In quanto tali devono:

1...

Rita Schiarea

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Argomento: Formazione

La posta elettronica certificata

La posta elettronica certificata (o posta certificata o PEC) è un sistema di comunicazione simile alla posta elettronica standard a cui si aggiungono delle caratteristiche di sicurezza e di certificaz...

La Redazione (R.S.)


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Argomento: Formazione

Documento informatico, firma elettronica, firma qualificata

La definizione di documento informatico è data dall’articolo 1, lettera b, D.P.R. N. 445 del 28 Dicembre 2000 che indica lo stesso come “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridic...

Rita Schiarea

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Argomento: Approfondimento

Usi e significati del termine globalizzazione (seconda parte)

Come si è detto, per alcuni studiosi, il punto d'avvio dei processi di globalizzazione è collocabile nell'ultimo scorcio del XX secolo. Vi è un altro gruppo di studiosi che retrodatano la globalizzazi...

Antonio M. Adobbato

domenica 1 febbraio 2009

Vizi privati e pubbliche virtù. Quale rapporto tra economia ed etica?


La drammatica crisi finanziaria ed economica globale, che ha il suo epicentro negli Stati Uniti ma che sta via via interessando tutti i sistemi economici mondiali, ha causato una stupefacente conversione in tutti coloro che si dichiaravano paladini del libero mercato.

Come si ricorderà, per Adam Smith, uno dei più importanti teorici del liberismo in economia, il perseguimento dell'utile e del profitto in ambito privato, per mezzo del libero mercato, rappresentato con la celebre immagine della “mano invisibile”, si trasforma miracolosamente in adeguata distribuzione della ricchezza e in ultima istanza in benessere collettivo. (1)

In fondo, è questa mano invisibile che trasformerebbe, secondo Smith, i “vizi privati in pubbliche virtù”.
Aggiornando le celebri formulazioni di Adam Smith intorno alla natura del capitalismo, secondo cui l'utile, la ricchezza, è l'unico valore perseguito dal sistema capitalistico, tutti i neoliberisti che hanno sostenuto per decenni le virtù taumaturgiche del mercato, rispetto allo Stato come soggetto produttore o regolatore, si sono improvvisamente ricreduti, invocando di nuovo l'intervento dello Stato – rectius: uso di risorse pubbliche per correggere i fallimenti del mercato -, sposando tesi che possiamo definire per comodità come neokeynesiane.

Anche i puristi del liberismo più intransigenti hanno convenuto che se non si può addossare tutta la colpa agli speculatori di Wall Street (e a chi altri, di grazia?), certo la connivenza tra controllati e controllori e l'insipienza degli organi di governance dei sistemi finanziari molto ha fatto per condurre il “sistema mondo” in una delle più gravi crisi economiche della storia.

Per tornare a Smith, visto che ci interessa in questo intervento mostrare come sia necessario confrontarsi con le idee, com'è universalmente noto, le critiche a questa visione ottimistica del capitalismo furono molte, e provenienti da diverse direzioni.
Se si smettesse di usare strumentalmente le idee, svilendole nel confronto di basso livello che affligge molte democrazie contemporanee, in cui il confronto politico avviene più sui sondaggi, sulle paure suscitate ad arte e sulle mode di turno invece che sulle visioni del mondo e sulle prospettive di sistema, ci si accorgerebbe che interrogarsi sulle prospettive e sulle contraddizioni del capitalismo non è lesa maestà nei confronti di un pensiero unico ma un modo serio - e sempre più una necessità - di esercitare la ragione in uno spazio pubblico aperto e libero.

Riconducendo la questione ai suoi tratti essenziali, il modo di produzione e di distribuzione della ricchezza cosiddetto capitalistico, è il migliore possibile? La crisi che lo sta attraversando adesso, ci induce a ritenere che si stia andando verso la sua dissoluzione o che sia semplicemente una crisi ciclica e che, more solito, essa servirà a rafforzarlo e a renderlo più attento alle esigenze dell'etica e della solidarietà? Possiamo immaginare che il sistema capitalistico accolga accanto al profitto come valore fondante anche quelli della solidarietà, dei valori etici e religiosi e della salvaguardia dell'ambiente?
Quale morale potrebbe impedire lo sfruttamento delle risorse umane e ambientali?
Che i molti convertiti sulla necessità di un ritorno all'etica in campo economico, dopo aver sostenuto la superiorità del mercato sullo Stato, vale a dire del perseguimento dell'utile invece che del bene collettivo, invochino oggi la morale e la solidarietà vuole dire che si assiste ad un cambiamento strutturale o che si tratta di un semplice sistema di sopravvivenza di una classe politica screditata e incapace? Che cosa dovrebbe costringerci, in questo nuovo corso, ad essere “morali”?


I più avvertiti tra i fautori del liberismo si rendono conto che lo sfruttamento indiscriminato, alla lunga, diviene un fattore destabilizzante e poco produttivo. Per questo essi sostengono che bisogna comporre una formula, selezionare una modalità operativa che coniughi profitto e solidarietà, l'utile ed il bene. Chi ha qualche dimestichezza con il pensiero filosofico, sa che questa è una richiesta paradossale e che comporta delle difficoltà insormontabili.

Invitare ad un comportamento etico, in un'azienda che ha come suo scopo prevalente la ricerca della massima efficienza in vista del profitto, significa avere come risultato qualcosa che non ha niente a che vedere strutturalmente con il profitto. Assumere come scopo il profitto vuol dire organizzare la produzione in modo diverso da come la produzione è organizzata quando si assume come scopo la solidarietà.

Tutt'al più, come molti possono convenire, l'unico modo che si è trovato per temperare gli animal spirits del capitalismo delle origini, è stato quello di ricorrere alla forza coercitiva della legge, che prescrive comportamenti e somministra sanzioni in caso di inosservanza. Solo in un secondo momento sono state create regole ed istituzioni di controllo con lo scopo di far svolgere la competizione economica entro limiti accettabili e con un certo grado di trasparenza.

Quanto al richiamo all'etica (al massimo si potrebbe invocare una deontologia, cosa ben diversa), come ci ha insegnato Immanuel Kant, quando l'etica assume come scopo qualcosa di diverso da ciò per cui l'etica è tale, cioè la “convinzione di agire e di fare in vista del bene” e fare quindi ciò “che ogni essere razionale dovrebbe fare”, allora l'etica non è più etica, perché avrebbe come scopo la produzione della ricchezza, l'incremento del profitto.
Come controprova fattuale, si potrebbe anche immaginare che se un ipotetico imprenditore si occupasse esclusivamente del benessere dei dipendenti, l'azione produttiva che lega in un unicum le risorse umane e materiali per trarne il maggior profitto possibile, assumendo come suo scopo qualcosa di diverso dal profitto il nostro imprenditore idealtipico svolgerebbe qualcosa di diverso dall'attività di accumulazione della ricchezza.

Confondere “benessere economico” e “bene”, tentarne un'ibridazione è, come si vede, difficile se non impossibile. Fare appello ai valori morali, significa opporre una ragione alta, ma debole, a un sistema che persegue i suoi fini indipendentemente da ragioni di ordine solidaristico o etico. Anche il più generico dei richiami al bene comune, senza volerne riprendere la nozione aristotelica, non farebbe deflettere dalla convinzione imperante che il sistema di produzione basato sulla ricerca del profitto non è un dispensatore di opere di... bene; la distribuzione di parte della ricchezza per scopi extraprofitto è, semmai, ulteriore, di seconda istanza.

Risulta davvero problematico, semmai, indicare un criterio assoluto, universalmente riconosciuto, di che cosa sia bene e in che cosa esso si differenzi dal benessere, poiché sembra che spesso si confondano. Il velo del benessere ci offusca la vista, sostengono molti, perché anche in presenza di molti beni a disposizione, giocando un po' con le parole, non si possiede il “bene” assoluto. Insomma, c'è qualcos'altro, ma non sappiamo bene che cosa o, se siamo indotti a ritenere di saperlo con certezza, non tutti sono d'accordo su di esso.
E se non sappiamo indicare un criterio su cui convergere, per differenziare il bene assoluto dai beni relativi, che cosa ci troviamo di fronte, cosa abbiamo come orizzonte?
Se si ha abbastanza onestà intellettuale da riconoscerlo, non si può non riconoscere che di fronte si hanno forze e interessi che si contrastano duramente, in uno scontro che si perpetuerà ancora a lungo. Chi non ha niente o non ha abbastanza vuole stare meglio e chi ha molto non è disposto facilmente a cederlo. Questo vale per i singoli e vale per gli Stati, come per il Nord e il Sud del mondo.
E qui torniamo di nuovo al punto di partenza: quando si chiede al sistema produttivo definito capitalista di essere diverso da quello che è, di assumere uno scopo diverso da quello del profitto, è come chiedergli di autodistruggersi.
I più alti magisteri morali e religiosi, insieme a quelli laici, che hanno introdotto la distinzione di strumentalità per distinguere il capitalismo buono da quello cattivo, indicano una strada praticabile ma non in grado di risolvere una volta per tutte la questione.
L'idea di fondo, espressa nella sua maggiore semplicità possibile, è la seguente: il sistema produttivo capitalistico, nato in Occidente alcuni secoli fa, è il sistema che si è rivelato storicamente e praticamente più efficiente per la produzione di beni e servizi. Tuttavia esso deve essere considerato solo uno strumento per un bene di carattere superiore e non può e non deve essere considerato un fine degno di essere perseguito in se stesso.
Dire che il sistema capitalistico è oggi l'unico in grado di produrre in modo efficiente beni e servizi contrariamente al sistema di economia pianificata, uscito dalla storia, significa prendere atto della realtà. Aggiungere la critica che esso non può e non deve avere come scopo il profitto ma il bene comune, allora è come invitare il sistema capitalista a non essere più tale, ad abrogare la sua più intima natura. Esso è come è e non può essere diverso da ciò che è, verrebbe da obiettare.



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Note

1) Ricordiamo che il celebre economista era professore di filosofia morale!Vedi Adam Smith, Teoria dei Sentimenti morali, Rizzoli, Milano, 1995.
2) Qualcuno forse ricorderà che qualche decennio fa si sosteneva che i sistemi produttivi dovessero diventare reticolari e orientarsi a piccole dimensioni per conservarne un'adeguata flessibilità, secondo lo slogan “piccolo è bello”. Negli ultimi tempi, invece, con sconcertante rovesciamento di prospettive, ci si accorge che la piccola dimensione non è sufficiente per competere nella dimensione globale e che bisogna ritornare al gigantismo. Viene da pensare che molti teorici dell'economia abbiano idee piuttosto confuse e che siano capaci solo di teorizzazioni ex post.