domenica 1 febbraio 2009

Vizi privati e pubbliche virtù. Quale rapporto tra economia ed etica?


La drammatica crisi finanziaria ed economica globale, che ha il suo epicentro negli Stati Uniti ma che sta via via interessando tutti i sistemi economici mondiali, ha causato una stupefacente conversione in tutti coloro che si dichiaravano paladini del libero mercato.

Come si ricorderà, per Adam Smith, uno dei più importanti teorici del liberismo in economia, il perseguimento dell'utile e del profitto in ambito privato, per mezzo del libero mercato, rappresentato con la celebre immagine della “mano invisibile”, si trasforma miracolosamente in adeguata distribuzione della ricchezza e in ultima istanza in benessere collettivo. (1)

In fondo, è questa mano invisibile che trasformerebbe, secondo Smith, i “vizi privati in pubbliche virtù”.
Aggiornando le celebri formulazioni di Adam Smith intorno alla natura del capitalismo, secondo cui l'utile, la ricchezza, è l'unico valore perseguito dal sistema capitalistico, tutti i neoliberisti che hanno sostenuto per decenni le virtù taumaturgiche del mercato, rispetto allo Stato come soggetto produttore o regolatore, si sono improvvisamente ricreduti, invocando di nuovo l'intervento dello Stato – rectius: uso di risorse pubbliche per correggere i fallimenti del mercato -, sposando tesi che possiamo definire per comodità come neokeynesiane.

Anche i puristi del liberismo più intransigenti hanno convenuto che se non si può addossare tutta la colpa agli speculatori di Wall Street (e a chi altri, di grazia?), certo la connivenza tra controllati e controllori e l'insipienza degli organi di governance dei sistemi finanziari molto ha fatto per condurre il “sistema mondo” in una delle più gravi crisi economiche della storia.

Per tornare a Smith, visto che ci interessa in questo intervento mostrare come sia necessario confrontarsi con le idee, com'è universalmente noto, le critiche a questa visione ottimistica del capitalismo furono molte, e provenienti da diverse direzioni.
Se si smettesse di usare strumentalmente le idee, svilendole nel confronto di basso livello che affligge molte democrazie contemporanee, in cui il confronto politico avviene più sui sondaggi, sulle paure suscitate ad arte e sulle mode di turno invece che sulle visioni del mondo e sulle prospettive di sistema, ci si accorgerebbe che interrogarsi sulle prospettive e sulle contraddizioni del capitalismo non è lesa maestà nei confronti di un pensiero unico ma un modo serio - e sempre più una necessità - di esercitare la ragione in uno spazio pubblico aperto e libero.

Riconducendo la questione ai suoi tratti essenziali, il modo di produzione e di distribuzione della ricchezza cosiddetto capitalistico, è il migliore possibile? La crisi che lo sta attraversando adesso, ci induce a ritenere che si stia andando verso la sua dissoluzione o che sia semplicemente una crisi ciclica e che, more solito, essa servirà a rafforzarlo e a renderlo più attento alle esigenze dell'etica e della solidarietà? Possiamo immaginare che il sistema capitalistico accolga accanto al profitto come valore fondante anche quelli della solidarietà, dei valori etici e religiosi e della salvaguardia dell'ambiente?
Quale morale potrebbe impedire lo sfruttamento delle risorse umane e ambientali?
Che i molti convertiti sulla necessità di un ritorno all'etica in campo economico, dopo aver sostenuto la superiorità del mercato sullo Stato, vale a dire del perseguimento dell'utile invece che del bene collettivo, invochino oggi la morale e la solidarietà vuole dire che si assiste ad un cambiamento strutturale o che si tratta di un semplice sistema di sopravvivenza di una classe politica screditata e incapace? Che cosa dovrebbe costringerci, in questo nuovo corso, ad essere “morali”?


I più avvertiti tra i fautori del liberismo si rendono conto che lo sfruttamento indiscriminato, alla lunga, diviene un fattore destabilizzante e poco produttivo. Per questo essi sostengono che bisogna comporre una formula, selezionare una modalità operativa che coniughi profitto e solidarietà, l'utile ed il bene. Chi ha qualche dimestichezza con il pensiero filosofico, sa che questa è una richiesta paradossale e che comporta delle difficoltà insormontabili.

Invitare ad un comportamento etico, in un'azienda che ha come suo scopo prevalente la ricerca della massima efficienza in vista del profitto, significa avere come risultato qualcosa che non ha niente a che vedere strutturalmente con il profitto. Assumere come scopo il profitto vuol dire organizzare la produzione in modo diverso da come la produzione è organizzata quando si assume come scopo la solidarietà.

Tutt'al più, come molti possono convenire, l'unico modo che si è trovato per temperare gli animal spirits del capitalismo delle origini, è stato quello di ricorrere alla forza coercitiva della legge, che prescrive comportamenti e somministra sanzioni in caso di inosservanza. Solo in un secondo momento sono state create regole ed istituzioni di controllo con lo scopo di far svolgere la competizione economica entro limiti accettabili e con un certo grado di trasparenza.

Quanto al richiamo all'etica (al massimo si potrebbe invocare una deontologia, cosa ben diversa), come ci ha insegnato Immanuel Kant, quando l'etica assume come scopo qualcosa di diverso da ciò per cui l'etica è tale, cioè la “convinzione di agire e di fare in vista del bene” e fare quindi ciò “che ogni essere razionale dovrebbe fare”, allora l'etica non è più etica, perché avrebbe come scopo la produzione della ricchezza, l'incremento del profitto.
Come controprova fattuale, si potrebbe anche immaginare che se un ipotetico imprenditore si occupasse esclusivamente del benessere dei dipendenti, l'azione produttiva che lega in un unicum le risorse umane e materiali per trarne il maggior profitto possibile, assumendo come suo scopo qualcosa di diverso dal profitto il nostro imprenditore idealtipico svolgerebbe qualcosa di diverso dall'attività di accumulazione della ricchezza.

Confondere “benessere economico” e “bene”, tentarne un'ibridazione è, come si vede, difficile se non impossibile. Fare appello ai valori morali, significa opporre una ragione alta, ma debole, a un sistema che persegue i suoi fini indipendentemente da ragioni di ordine solidaristico o etico. Anche il più generico dei richiami al bene comune, senza volerne riprendere la nozione aristotelica, non farebbe deflettere dalla convinzione imperante che il sistema di produzione basato sulla ricerca del profitto non è un dispensatore di opere di... bene; la distribuzione di parte della ricchezza per scopi extraprofitto è, semmai, ulteriore, di seconda istanza.

Risulta davvero problematico, semmai, indicare un criterio assoluto, universalmente riconosciuto, di che cosa sia bene e in che cosa esso si differenzi dal benessere, poiché sembra che spesso si confondano. Il velo del benessere ci offusca la vista, sostengono molti, perché anche in presenza di molti beni a disposizione, giocando un po' con le parole, non si possiede il “bene” assoluto. Insomma, c'è qualcos'altro, ma non sappiamo bene che cosa o, se siamo indotti a ritenere di saperlo con certezza, non tutti sono d'accordo su di esso.
E se non sappiamo indicare un criterio su cui convergere, per differenziare il bene assoluto dai beni relativi, che cosa ci troviamo di fronte, cosa abbiamo come orizzonte?
Se si ha abbastanza onestà intellettuale da riconoscerlo, non si può non riconoscere che di fronte si hanno forze e interessi che si contrastano duramente, in uno scontro che si perpetuerà ancora a lungo. Chi non ha niente o non ha abbastanza vuole stare meglio e chi ha molto non è disposto facilmente a cederlo. Questo vale per i singoli e vale per gli Stati, come per il Nord e il Sud del mondo.
E qui torniamo di nuovo al punto di partenza: quando si chiede al sistema produttivo definito capitalista di essere diverso da quello che è, di assumere uno scopo diverso da quello del profitto, è come chiedergli di autodistruggersi.
I più alti magisteri morali e religiosi, insieme a quelli laici, che hanno introdotto la distinzione di strumentalità per distinguere il capitalismo buono da quello cattivo, indicano una strada praticabile ma non in grado di risolvere una volta per tutte la questione.
L'idea di fondo, espressa nella sua maggiore semplicità possibile, è la seguente: il sistema produttivo capitalistico, nato in Occidente alcuni secoli fa, è il sistema che si è rivelato storicamente e praticamente più efficiente per la produzione di beni e servizi. Tuttavia esso deve essere considerato solo uno strumento per un bene di carattere superiore e non può e non deve essere considerato un fine degno di essere perseguito in se stesso.
Dire che il sistema capitalistico è oggi l'unico in grado di produrre in modo efficiente beni e servizi contrariamente al sistema di economia pianificata, uscito dalla storia, significa prendere atto della realtà. Aggiungere la critica che esso non può e non deve avere come scopo il profitto ma il bene comune, allora è come invitare il sistema capitalista a non essere più tale, ad abrogare la sua più intima natura. Esso è come è e non può essere diverso da ciò che è, verrebbe da obiettare.



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Note

1) Ricordiamo che il celebre economista era professore di filosofia morale!Vedi Adam Smith, Teoria dei Sentimenti morali, Rizzoli, Milano, 1995.
2) Qualcuno forse ricorderà che qualche decennio fa si sosteneva che i sistemi produttivi dovessero diventare reticolari e orientarsi a piccole dimensioni per conservarne un'adeguata flessibilità, secondo lo slogan “piccolo è bello”. Negli ultimi tempi, invece, con sconcertante rovesciamento di prospettive, ci si accorge che la piccola dimensione non è sufficiente per competere nella dimensione globale e che bisogna ritornare al gigantismo. Viene da pensare che molti teorici dell'economia abbiano idee piuttosto confuse e che siano capaci solo di teorizzazioni ex post.

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