sabato 18 aprile 2009

La legge sul fine vita nel paese dei cuscini soccorrevoli. In margine al caso di E. Englaro (prima parte)


Nel nostro strano paese, dove si verifica una produzione legislativa e una propensione alla giuridificazione che non trova riscontri in molti paesi occidentali avanzati, non si sono trovati il tempo e il modo, finora, di regolamentare in modo coerente e ragionevole alcune questioni legate alla bioetica, alla luce dei nuovi e complessi rapporti tra i progressi della tecnica e della medicina e le questioni etiche e deontologiche che vi sono connesse.

Il caso di Eluana Englaro, o il caso di Piergiorgio Welby del 2006, hanno posto davanti alle nostre coscienze di cittadini italiani, e di uomini, la presenza di nuovi e controversi problemi etici, insieme all'esigenza di trovare una sintesi se non definitiva almeno condivisa, che provi ad individuare un terreno d'incontro tra orientamenti culturali e etici divergenti.(1)

In controtendenza con ciò che è stato detto e scritto fin qui, vorremmo provare in questo intervento a mantenerci sul livello delle idee, delle argomentazioni e dell'analisi delle conseguenze etiche e politiche, come sempre bisognerebbe sforzarsi di fare quando si accosta l'etica, anzi la bioetica e la biopolitica, come nei casi appena richiamati.

a) Il primo punto dal quale vorremmo partire riguarda la questione dello Stato etico - e del suo assoluto rifiuto. Qualcuno forse ricorderà che la teoria hegeliana affermava che lo Stato è l'unica fonte di libertà e l'unica norma etica per il singolo, poiché solo lo stato ha coscienza di sé. La condotta dello stato, poi, non può essere oggetto di valutazioni morali da parte dell'individuo, poiché esso si pone quale fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male.
Com'è forse più noto, le elaborazioni hegeliane, del tutto travisate e strumentalmente distorte, furono alla base di molte pratiche aberranti dei vari regimi totalitari che si sono succedute nel ventesimo secolo.
E se non si vuole ritornare a quel monstrum giuridico-istituzionale, occorrerà pur trovare qualche fondamento migliore al rapporto tra diritto ed etica e alla regolamentazione dei confini tra intervento dello Stato e spazio individuale.
Per sottrarsi all'abbraccio mortale che regolamenta in modo minuzioso le scelte etiche e a cui il singolo deve solamente obbedire, il principio etico e giuridico al quale è bene ritornare è quello dell'habeas corpus.(2)

b) In quali modi dovrebbe funzionare l'habeas corpus, dunque? In quali modi possiamo intendere i rapporti tra lo spazio minimo e intangibile dell'individuo rispetto al potere (del) sovrano? Quel caposaldo etico e giuridico nasceva, come si ricorderà, dall'esigenza di garantire, prima di tutto, l'incolumità personale del suddito rispetto al potere assoluto del re. “Non sarà alzata la mano su di te”, come recita quella formula celebre, sta a significare, per noi moderni, dopo la lezione di Montesquieu, la supremazia della legge e del diritto sulla forza e sul potere assoluto. Questo modo d'intendere l'habeas corpus, non si ferma, come avrebbe detto Isaiah Berlin, alla “libertà da”, vale a dire alla libertà intesa nel solo modo della salvaguardia da un potere coercitivo.(3)
Per continuare ad usare le categorie del grande pensatore liberale, dovremmo aggiungervi anche la “libertà di”, cioè la possibilità di esercitare quella libertà che trova il suo punto di partenza nel rispetto di ogni persona e di ogni individuo.
Oppure, secondo i più contraddittori tra i critici, dovremmo rinunciare a pensare che la nostra libertà sia solo quella di negare la sopraffazione del potere altrui ma non abbia anche a vedere, radicalmente, con un principio di autodeterminazione? Si può essere liberi senza disporre di sé stessi? Non tocca rifarsi al libero arbitrio per richiamare tutti alla possibilità e alla libertà della scelta? Come ha scritto di recente il teologo Mancuso, “ se si riconosce alla persona la libertà di autodeterminarsi nel rapporto con Dio, come fa la Chiesa cattolica a partire dal Vaticano II, quale altro ambito si sottrae legittimamente al principio di autodeterminazione? (…) La realtà è che non è possibile nessuna adesione alla verità se non passando per la libertà.” (4)
Dalla libertà che decide non è possibile deflettere, aggiunge Mancuso. Dire e fare altrimenti, sarebbe un esito strano e del tutto paradossale anche per i più strenui difensori della indisponibilità della vita.

c)A questo proposito, ci sono due posizioni che si fronteggiano nel campo nuovo e controverso della bioetica. I pensatori di area cattolica, sulla base dell'idea del dono divino, ritengono la vita sempre e comunque indisponibile e che ogni atto od omissione che determini la morte per il soggetto sia da qualificarsi come suicidio o eutanasia. Viceversa, e semplificando anche qui in modo estremo, per i pensatori che si possono definire laici, la vita è invece nella disponibilità degli individui e in ogni momento, come nel caso in cui occorra ricorrere a cure mediche ritenute lesive della dignità della vita, con le dovute cautele, e con l'assistenza di un medico, possono decidere quali cure accettare e quali rifiutare, esercitando il cosiddetto “consenso informato” per evitare quel che si è definito accanimento terapeutico. La necessità di coniare il termine accanimento terapeutico nasce, infatti, dalla crescente capacità dell’odierna medicina di regolare la durata della vita umana a prescindere dalle condizioni del paziente. Ciò viene vissuto da molti pazienti come una invasione della sfera personale e sono sempre più coloro che si oppongono a questo, rifiutando le cure. Questo sentimento di invasione è stato, quindi, tradotto con il termine medico di accanimento terapeutico il quale, pur essendo nato negli anni ’70, si è andato affermando negli anni ’80 ed è comparso per la prima volta nel codice deontologico nel 1989 con una definizione che non ha subito sostanziali modifiche nei successivi codici.(5)
Non ha suscitato altrettanto scalpore il caso della donna che dovendo combattere una cancrena ad una gamba, ne rifiutò l'amputazione, con la conseguenza di morire a causa del mancato intervento. Il caso di Eluana Englaro, ha posto, invece, il problema di stabilire il consenso o il dissenso rispetto alle cure, perchè la povera ragazza versava in stato di coma permanente da 17 anni e non si aveva la certezza di quale fosse la sua volontà rispetto alle cure proposte come necessarie. Questione approfondita e sviscerata nella lunghissima vicenda processuale.

(continua)



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NOTE

1)Quello che si è visto sin qui, invece, e quello che si vede nelle concitate discussioni intorno al ddl Calabrò sul “fine vita”, è la solita guerra di religione travestita da scontro politico (questa relazione la si può leggere, nel nostro isterico spazio pubblico, anche al contrario...).
2)Nel sistema anglosassone di common law si indica con la locuzione habeas corpus (trad. lat. "(ordiniamo che) tu abbia il corpo") l'ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto. Ciò vale in senso stretto, poiché di solito si fa riferimento all'atto legale o al diritto in base al quale una persona può difendersi dall'arresto illegittimo di se stessa o di un'altra persona. Il diritto di habeas corpus nel corso della storia è stato un importante strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello stato.Tale sistema è stato inserito nell'importante documento della Magna Charta Libertatum (1215) successivamente a rivendicazioni di alcuni baroni inglesi.
3)Vedi Isaiah Berlin, Libertà, Feltrinelli, Milano, 2005.
4)Vito Mancuso, Non c'è fede senza libertà, La Repubblica, 9/3/2009.
5)Vedi http://www.salus.it/codice.html

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