giovedì 14 maggio 2009

La pastasciutta e i prezzi dei cereali. Storie e storielle sulla produzione del piatto più amato.


Come diceva il filosofo, forse esagerando, l'uomo è ciò che mangia. Prendendola in modo un po' più dubitativo, non ci dovrebbero essere troppe incertezze sulla constatazione che il cibo non è solo un atto fisiologico legato alla nutrizione ma che intorno ad esso si gioca una partita importante dal punto di vista della cultura e dei modelli di sviluppo per il prossimo futuro.

Dispiace constatare che in molte rubriche televisive e giornalistiche dedicate al cibo si dimentichi quanto la scienza gastronomica (1), come l'ha chiamata Carlo Petrini, il vate dello slow food, sia solo un enorme ricettario di pietanze e di preparazioni senza che venga mai affrontato il problema della provenienza, della genuinità, della salute, della dietetica. Solo qualche scandalo sulla contraffazione o sulla truffa alimentare ci fa preoccupare di quello che mettiamo nel piatto e nel nostro organismo.

La gastronomia dovrebbe essere considerata, invece, come un intreccio di conoscenze scientifiche, di saperi antichi, di economia dei territori. Se non si ha la visione complessiva di uno degli atti più importanti e significativi della vita, quello del nutrirsi e nutrire, dimenticando che la gastronomia è anche economia, storia, salute, antropologia, si avrà una prospettiva distorta e del tutto monca su un atto che sta diventando meccanizzato e sempre più privo di coscienza. Solo per fare qualche esempio e qualche richiamo: i romani chiamarono Salaria la via che collegava la città di Roma al mare; la stessa radice è alla base del corrispettivo pagato per il lavoro che si svolge; vi sono regioni che sono associate al nome di un prodotto tipico, come lo champagne. Quanto all'antropologia, cosa c'è di più ancestrale del condividere il cibo con i propri familiari o con gli ospiti? Quanto si è elaborato, nel corso della storia e dei costumi intorno alla civiltà del mangiare e del bere? Per venire poi ai tempi nostri, pensiamo solo a quanto si insiste, con scarsi risultati, sulle proprietà terapeutiche del cibo e sulla necessità di avere abitudini alimentari sane e responsabili per evitare di incorrere in seri problemi di salute. Gli unici che si preoccupano di fare informazione sul consumo responsabile del cibo sono quasi sempre i produttori che con la loro martellante pubblicità ci “informano” su quali, quanti cibi consumare e quando. Se si desse davvero retta alle reclame di carattere alimentare, dovremmo ingurgitare cibo la metà del tempo e passare l'altra metà a consumare prodotti dimagranti, snellenti, depuranti e protettivi. Davvero un bel panorama, per delle società opulente che dopo migliaia di anni hanno superato la penuria alimentare e vivono stabilmente nell'abbondanza e nello spreco insensato di cibo. E' appena il caso di ricordare che a fronte di un sesto dell'umanità che si dibatte nell'eccesso e nello spreco di risorse alimentari, un altro sesto rischia l'inedia, mentre è stato calcolato che con le attuali conoscenze la terra sarebbe in grado di sfamare all'incirca il doppio della popolazione attuale.

E veniamo adesso ad uno dei piatti più amati dagli italiani e forse uno dei simboli del made in Italy, la pasta. Il primo dato che balza all'attenzione è che l'Italia è un paese di “pastasciuttari”, di forti consumatori di pasta, con un consumo pro-capite di circa 28 Kg. all'anno; questo livello di consumo costituisce un record mondiale, visto che il Venezuela, il secondo in questa speciale classifica, ha un consumo pro capite di meno della metà, 12,7 kg anno pro-capite.

Oltre ad essere i primi e più entusiasti consumatori, all'Italia va attribuito il primato anche nella produzione di pasta, con una produzione annua di 2.900.000 tonnellate, di cui il 48% destinato all'esportazione.
I pastifici sparsi sul territorio nazionale sono un numero considerevole, circa 180, e hanno un numero di addetti stimato tra le 8300 e le 8800 unità.(2)
La semola di grano duro è la materia prima che serve per produrre la pasta. Questa lapalissiana affermazione - visto il livello di consumi che ci contraddistingue - dovrebbe farci stare un po' più attenti alla provenienza di questa fondamentale materia prima.
Secondo l' ISMEA (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare ), nel 2008 la produzione di frumento duro in Italia è stata di quasi 6 milioni di tonnellate, in crescita di oltre il 40 % rispetto all'anno precedente.
Tutto bene, sembrerebbe. In realtà, il settore cerealicolo vive una situazione economica molto delicata, con il grano che viene pagato sui 20 euro al quintale, cioè meno di quanto costava negli anni “80, con l’aggravante dell’aumento dei costi di produzione e di trasporto.(3)

Se al momento della raccolta permarrà questo prezzo, per una produzione media che si aggira intorno ai 60 quintali circa per ettaro, un agricoltore riceverebbe circa 1.200,00 Euro. Tolte le spese di produzione, ne resterebbero sui 155,00 euro/anno per ogni ettaro coltivato. Una cifra del tutto insufficiente, considerando la dimensione delle aziende agricole, che nella cerealicoltura si aggira intorno ai 10 ha. La conseguenza, del tutto prevedibile, è che la perdita impressionante di reddito nella produzione di cereali causa un elevato abbandono della coltivazione del grano con conseguente migrazione e desertificazione territoriale.

Quella della coltivazione del frumento è una situazione che può essere compresa nella sua interezza solo se si analizza l’evoluzione della Politica Agricola Comunitaria.
Proprio con la nascita della PAC, iniziò la politica di protezione dei prodotti europei, che tendeva a garantire prezzi certi agli agricoltori evitando la concorrenza Extra-CEE.
Per il frumento si inserì, nel 1962, la preferenza comunitaria (tassa all’importazione corrispondente alla differenza tra prezzo europeo e prezzo internazionale).
Se un produttore di pasta voleva acquistare un quintale di grano in Ucraina o in Romania (allora fuori dall’Europa) non avrebbe ottenuto nessun risparmio di prezzo, perché la PAC l’avrebbe tassato fino a portarlo al Prezzo Comunitario prestabilito.
L’ agricoltore aveva la certezza di vendere tutto il suo prodotto ad un prezzo garantito dalla Comunità Europea e ai produttori conveniva acquistare solo le migliori farine locali.
Venendo a tempi a noi più prossimi, quando la Ue, su pressioni del WTO, sposò la ricetta della liberalizzazione dei prezzi e della concorrenza, il prezzo del frumento tornò ad essere stabilito dal"mercato", tanto che l’agricoltura europea, da allora, ha subito una costante perdita di redditività.
Il costo delle farine è passato, così, da un costo politico certo, alle oscillazioni dei "futures" alimentari, cioè i prodotti finanziari che scommettono sui prezzi futuri scambiati alla Borsa di Chicago.
A questo punto, nel nuovo assetto economico globalizzato, un pastificio non ha più convenienza ad acquistare un prodotto locale, ma va in cerca dei costi più bassi.
Abbiamo fatto un po' di fatica a seguire il percorso della produzione della materia prima ma siamo più coscienti della complessità delle scelte politiche ed economiche che si celano dietro un alimento così importante per tutti noi.
Tutti ricorderanno i grandi allarmi e le preoccupazioni che si levarono nella prima parte dell'anno scorso, quando l'elevato costo dei carburanti fu chiamato a spiegare l'aumento continuo del prezzo della pasta e del pane, da sempre considerati beni di prima necessità. Ma quell'aumento era davvero del tutto giustificato? Non ci hanno raccontato qualche storia per rabbonirci e dare una parvenza di spiegazione a un evento che aveva altre cause e altri effetti?
Gli esperti del settore ci spiegano che la produzione media di un ettaro di frumento è di circa 60 quintali, utili a produrre circa 80 quintali di pasta. Considerando che l’Osservatorio sui prezzi al Consumo, indica in 2 Euro/KG il prezzo medio della Pasta secca , possiamo dire che da un ettaro coltivato a grano il settore distributivo e i pastifici ricavano circa 16.000 Euro, dandone all’agricoltore solamente1.200 euro.(4)
E' ovvio che tale margine può aumentare, acquistando grani esteri a minor costo.
Cosa dovrebbero valutare i produttori nell'acquisto del grano? La qualità del prodotto? Il rispetto delle norme ambientali? Perché non la situazione economica degli agricoltori? O, più plausibilmente, interessa solo il minor prezzo per avere un maggior profitto?

Per guadagnare di più, forse, non c’è momento migliore, con il prezzo mondiale del grano che, in sei mesi, è crollato sul mercato internazionale con perdite di miliardi di euro per i contadini dei diversi continenti, che saranno spesso costretti ad abbandonare una coltivazione dalla quale dipende la sopravvivenza di miliardi di persone.(5)

Proviamo a ricapitolare, allora, cosa c'è dietro un piatto di pasta.
I produttori di grano europei sono presi nella morsa del mancato protezionismo, adesso vietato, per dare la possibilità ai paesi produttori in via di sviluppo di commercializzare i loro prodotti nei paesi ricchi. D'altro canto, l'apertura dei mercati consente in linea teorica l'accesso delle materie prime prodotte nei Paesi in via di sviluppo presso mercati remunerativi e in linea di principio aumenta le risorse per le zone povere del mondo. L'esposizione a questa concorrenza comporta la crisi del settore e l'abbandono delle attività marginali nei paesi ricchi. I consumatori, da parte loro, si trovano esposti al rischio di un mancato e serio controllo sulle produzioni provenienti da altri paesi, in cui non si hanno certezze circa il rispetto di rigorose normative e di controlli sulla qualità e sulla sicurezza dei prodotti.

E allora qual è il vero prezzo della pasta? Forse dovremmo riflettere maggiormente su questo modello di produzione/consumo; è in questo sistema che vanno cercate le cause degli aumenti del costo della pasta e il crollo del prezzo del grano.


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Note

1) In realtà, sostiene C. Petrini, la si dovrebbe definire scienza gastronomica, proprio per sottolinearne la dignità di disciplina scientifica che nasce dall'incontro di varie conoscenze. Per questo motivo, qualche anno fa, nel 2004, è stata creata la prima Facoltà di Scienze gastronomiche. Vedi il sito : http://www.unisg.it/ita/index.php.
2)Vedi i dati pubblicati da Databank: http://www.databank.it/index/index2.html.
3)Secondo le ultime rilevazioni oscilla tra un prezzo minimo di € 1,76 Kg ad un prezzo massimo di € 2,58. Vedi http://www.osservaprezzi.it/livelli/istat/livelli.asp.
4)Vedi il grido di allarme lanciato da alcuni produttori: http://www.capitanata.it/newsrecord_long.php?tar=8126.
5)Ci sono anche esperienze virtuose, che qui non citiamo per non fare pubblicità. Si tratta di piccoli produttori che vendono il loro prodotto ai Gruppi di acquisto solidali, soprattutto al nord. Per chi è interessato, visiti il sito http://www.retegas.org/.

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