martedì 9 dicembre 2008

Come combattere le paure planetarie.


Il Presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosvelt, all'inizio del suo primo mandato, nel 1933, pronunciò una celebre frase che sancì, con la sua immediata popolarità, l'inizio della rinascita dopo la depressione del 1929:”l'unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”.
Questa semplice formula, comprensibile da tutti, a detta di molti osservatori ebbe il pregio di infondere nuova speranza e un crescente ottimismo dopo il collasso del sistema finanziario e produttivo della Grande Depressione iniziata qualche anno prima.
E ogni qualvolta si presenta una crisi di vaste proporzioni, quasi come se fosse un riflesso condizionato, si ripensa a quella frase e a quell'esperienza storica. C'è da chiedersi come mai un Presidente degli Stati Uniti, invece di affidarsi ai consueti strumenti a sua disposizione, normativi ed economici, si sia invece affidato alla psicologia. (1)
Molti osservatori ed esperti di cose economiche hanno sempre sottolineato che il vero motore dei mercati e degli scambi sia la fiducia reciproca tra debitori e creditori. Se passiamo per buona la forzatura concettuale – in realtà si scambia un bene attuale contro un bene futuro più grande, il cui valore si misura non sulla fiducia ma sul lavoro -, e se estendiamo il modello economico anche ad altri ambiti della vita sociale, si vedrà che il sentimento della paura, da semplice segnale di allarme per la propria incolumità personale o di gruppo si è via via ingrandito a tal punto da diventare un fenomeno ed un problema.

Come si cercherà di far vedere, esponendo in sintesi alcuni degli interventi che si sono tenuti ad un summit sulle paure planetarie, tenutosi a Roma, i piani di lettura possono essere diversi ma crediamo si possa concordare sulla rilevanza dell'atteggiamento della paura nei confronti del mondo.
Il filosofo B. Russell, nell'analisi delle credenze, ha efficacemente sostenuto che “un contenuto si considera creduto quando ci spinge ad agire”, cioè quando passiamo dalle intenzioni ai fatti e le nostre azioni derivano da ciò che crediamo.
Più forte è la convinzione, più l'azione prende il sopravvento.

Se rimaniamo in campo economico, possiamo chiederci quali azioni e decisioni prenderà ( o non prenderà...) un consumatore, un risparmiatore, un investitore, un imprenditore in preda alla paura?
E la politica, la più architettonica di tutte le scienze, come diceva Platone, come elabora e interviene sulle correnti di paura che troppo spesso alimenta invece di contrastare?

Se a ciò aggiungiamo anche l'imprevedibilità crescente del mondo e della sua poco comprensibile complessità, le molte aspettative sul futuro relativamente alla propria vita, il lavoro, la casa, i risparmi, lo stato del pianeta, il riscaldamento globale, il terrorismo, la globalizzazione e via elencando non fanno che aumentare a dismisura le correnti irrazionali e incontrollabili nel gioco delle azioni e retroazioni tra eventi paurosi e sentimento della paura.

Per fare un primo punto sul fenomeno delle paure e dei meccanismi che le alimentano, a Villa Miani, a Roma, nel mese di settembre, dal 24 al 26, su iniziativa della Fondazione Roma in collaborazione con la Fondazione Censis, si è tenuta la prima edizione del World Social Summit, dal titolo Fearless: dialoghi per combattere le paure planetarie. (2)

Si è trattato di un interessante e importante momento di confronto e di approfondimento a livello internazionale su varie tematiche che stanno segnando l'evoluzione sociale; sono stati chiamati a discuterne e a confrontarsi prestigiosi intellettuali, ricercatori e rappresentanti di istituzioni nazionali ed internazionali.

Il tema prescelto, la paura planetaria, cerca di fare il punto sul senso dell'incertezza, percepita o reale, che a diversi livelli fasce sempre più ampie di popolazione si trovano a dover gestire. Le paure vere o presunte sul terrorismo, sicurezza, epidemie, perdita del lavoro, ecc., sono state analizzate secondo varie dimensioni e da prospettive disciplinari diverse, unite però dal tentativo di circoscrivere un evidente paradosso.
Si è spesso detto, almeno dal secolo dei lumi in poi, che la conoscenza e l'informazione dovrebbero estinguere o combattere alla radice le pulsioni più irrazionali e i sentimenti più regressivi.
Se si analizzano invece i meccanismi di comunicazione attuale, al contrario, sembra che le notizie diffuse nella sfera mediatica globale tendano invece a generarle, le paure, piuttosto che contrastarle. Molte delle notizie propalate dai media, infatti, non sono sempre un racconto circostanziato sull'esistenza di minacce o rischi oggettivi, ma creano o alimentano gli eventi paurosi. Tra gli obiettivi che il Summit si è posto c'è quindi in primo luogo il tentativo di comprendere chi produce e come tale condizione di vulnerabilità e di allarme, chi ha specifici interessi (economici o politici) ad alimentarle e in quale modo si può impedire che i meccanismi della comunicazione alimentino le paure invece di contrastarle.

Tra i più interessanti, citiamo l'intervento di D. Altheide, analista della comunicazione della Arizona State University. Sostiene Altheide che il modo in cui i media producono una retorica della paura è dovuto al cambiamento profondo del linguaggio, che innova con nuovi simboli la visione del mondo. Quello che si è prodotto nel tempo è un discorso in cui la paura riveste un ruolo centrale, dove i rischi e i pericoli sono elementi centrali della vita quotidiana. Il meccanismo consiste nell'associare un problema alla paura, ad esempio la criminalità. Poi ci si allontana dal fenomeno e vi si associa un altro problema importante, come l'uso di droga ad esempio. In questo modo la parola paura sparisce ma i fenomeni connessi rimangono associati in modo indelebile nella psicologia e nel vissuto dei cittadini. Di qui nasce anche la politica della paura, dove si vedono all'opera i governi che diffondono la convinzione che tutti possono essere protetti, aumentando il controllo sociale e riducendo le libertà più elementari. La conseguenza di questo meccanismo di governo è che cambia la vita quotidiana e si compiono scelte sempre più dettate dal sentimento della paura: si va ad abitare in condomini chiusi, si comprano sempre più armi per difendersi, si sceglie di avere una vita sociale sempre più ridotta e controllata.

Frank Furedi, sociologo all'Università di Kent e giornalista, nota che parliamo di paure usando spesso dei rituali, come quando si fa una lezione in un'aula e per prima cosa si indicano le uscite di sicurezza. Ci sono sette regole, diremmo noi sette dimensioni della paura, secondo l'analista inglese. Tra queste, una riguarda il fenomeno, come diceva Altheide, di un sentimento che si stacca da un oggetto specifico. Un'altra, particolarmente importante, è che la paura naviga libera, si sposta con velocità da un ambito all'altro e per questo basta guardare i titoloni ansiogeni dei giornali: aviaria, obesità, cibi transgenici, terrorismo, ecc.
Un terzo elemento è che la paura è diventata un'ideologia, una prospettiva e la politica la usa come risorsa culturale. Le differenze tra i partiti, oggi, si basano sulle diverse paure su cui fanno leva. Attualmente, poi, cresce un carattere privato e paralizzante del timore: non parliamo con i vicini, viviamo nel nostro intimo. E poi anche la paura di se anche come collettività, addirittura come specie; leggiamo e sentiamo di un'umanità che inquina e distrugge: l'impatto umano ha assunto negli ultimi tempi un significato negativo, dato che per la prima volta nella storia c'è la consapevolezza che la specie umana, nella sua interezza, può portare al collasso del pianeta.

Un altro importante intervento, attento a cogliere gli elementi antropologici di gestione della paura è quello di Michel Maffesoli, filosofo e sociologo alla Sorbonne. Da dove viene questa paura, si chiede Maffesoli? Certo è importante combattere la paura della paura, ma normalmente noi ci muoviamo secondo due importanti paradigmi, che si condensano in un modello culturale secondo cui esiste una soluzione, e un altro modello, alternativo, che non prevede soluzioni. Il nostro mondo non ha più una visione drammatica dell'esistenza, come quella tipica della cultura giudaico cristiana, in cui la fatica e il dolore sono tappe di un percorso ascetico verso il bene. E' piuttosto simile al mondo classico, che ha invece una visione tragica, dove non c'è nessun lieto fine e dove non c'è una ricomposizione dei drammi della storia. Di qui viene la tentazione di rifugiarsi in un mondo altro, come nei mondi virtuali di Second Life, o nella droga, appiattendosi sul presente e manifestando una incapacità ormai strutturale di progettare a lungo termine.
Sull'idea che occorra non aver paura della paura, ma invece viverla, affrontare il processo in gioco, accettare un ritorno del tragico, dove non c'è più la soluzione, concorda anche il filosofo Salvatore Natoli, dell'Università degli Studi di Milano. E' solo problematizzando la paura che la si ridimensiona, dice Natoli. La paura ha una doppia natura: "paralizzante" ed "organizzatrice". E' necessario lavorare per fare emergere il lato organizzatore della paura.
La società contemporanea può essere rappresentata utilizzando il concetto di imponderabilità del mondo. Il mondo si è fatto più complesso, ma gli individui sono rimasti gli stessi. Il concetto di istantaneità oggi permea il sistema di relazioni tra gli individui, ma anche la loro capacità di relazionarsi con l'ambiente esterno e con le insidie che questo manifesta.
Occorre una grande rivoluzione morale, che sappia riportare in auge la logica dell'altro, per sconfiggere la paura. Gli individui devono riscoprire l'importanza dello scetticismo come pratica per affrontare la realtà sociale. Chi non è scettico, soffre d'immaginazione, e l'immaginazione dà vita a quello spazio interstiziale in cui si insidia la paura.
Per Zygmunt Bauman, sociologo dell'Università di Leeds, del regno Unito, è errato parlare di “paura” e sarebbe meglio parlare di “paure” al plurale.
Quella di oggi è spesso paura dell'inadeguatezza, sostiene il celebre teorico della società liquida. Perché oggi la società non fissa regole ma da possibilità che possono essere sfruttate. Se si perde l'opportunità, la responsabilità è dell'individuo che non ha avuto abbastanza energia, intelligenza e non ha provato abbastanza. C'è dunque una responsabilità personale che comporta in sé il rischio di non cogliere appieno le opportunità.
E poi c'è l'insicurezza sociale che viene dalla consapevolezza che così come ci viene dato un posto in società, a volte ci può essere tolto. Man mano che si va avanti si rimane attaccati a questa posizione sociale, perché abbiamo paura di perderla. La promessa dei governi e delle società organizzate era quella di liberare la gente da questo tipo di paura derivante dall'insicurezza sociale.
Un altro prestigioso teorico, Robert Castel, dell'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Francia, proprio sulla paura della perdita di tutela come sentimento condiviso dei cittadini occidentali, nota che le fonti di produzione della paura, pur essendo molteplici, possono essere schematicamente ricondotte a due:
- la prima riguarda la perdita di potere dello stato nazione, soprattutto perché i Paesi hanno in gran parte perso il controllo sui parametri del loro sviluppo. La globalizzazione ha fatto sì che gli stati non siano più in grado di controllare i flussi degli scambi. In questo senso è fondamentale la progettazione ed il funzionamento di soggetti sovranazionali di controllo efficaci.
- Il secondo elemento di forte criticità è costituito dalla messa in discussione dello stato nelle sue modalità di funzionamento: in particolare lo stato perde le sue regolamentazioni collettive. Sia la disoccupazione di massa, per cui un numero sempre maggiore di cittadini si trovano al di fuori dalle tutele, sia la frammentazione dell'organizzazione del lavoro con un sempre maggior numero di soggetti esclusi dai sistemi di protezione, producono incertezza in una società che è sempre più società degli individui.
Di fronte ad una società mobile e liquida, il welfare deve aggiornare i propri strumenti e ripensare le forme di intervento e tutela. Se il welfare state tradizionale adempiva alla domanda di tutela che fino agli anni settanta veniva espressa dai cittadini, oggi deve essere profondamente ripensato, una sfida complessa per la quale non esistono soluzioni semplici.
(continua)


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Note

(1) Se lo chiede ad es. un grande psicanalista, J. Hillman, nel suo intervento al summit, che richiamando magistralmente gli interventi di alcuni pensatori e moralisti, ha ricordato la positività del sentimento della paura, per la funzione che essa svolge nel richiamare virtù importanti come la speranza, la fiducia, il coraggio e la disciplina. Per leggere un ritratto sintetico di Roosevelt, vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Franklin_D._Roosevelt.
(2) Vedi http://www.worldsocialsummit.org/

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