mercoledì 17 settembre 2008

La luce dell'artista e quella dello spettatore


Di seguito un lavoro in libertà originato da un interessante quesito posto da un amico durante una cena. La domanda, scaturita in un lungo viaggio in auto con la sua compagna e futura moglie suona più o meno così: la luce che vede l'artista - e quella che poi realizza nel quadro - è la stessa luce che vede lo spettatore?
Detta così, mi ha fatto scattare un campanello e mi sono messo a rimuginare qualcosa sull'argomento. Il risultato, piuttosto lunghetto, frutto di un lavoro fatto a più riprese, lo metto qui.


Caro P.,

come promesso (o minacciato?), provo a buttare giù qualche idea sull’interessante quesito estetico-filosofico che avevi proposto qualche tempo fa e che provo a riassumere (a memoria) così:

“un artista dovrebbe far vedere o percepire la sua opera ad un ipotetico
spettatore esattamente con le stesse condizioni di luce
che egli stesso ha percepito e che hanno guidato la sua opera.”

Uno studioso di estetica tra i più avvertiti ed acuti, Garroni, che a lungo ha studiato il rapporto tra arte e conoscenza, lo avrebbe trovato senz’altro intrigante.
(vedi a questo proposito http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=798#oggettiva)AA
Ci provo anch’io, anche se non sono Garroni, non ho avuto modo di controllare con la dovuta accuratezza le fonti e quindi mi scuserai qualche imprecisione o qualche licenza interpretativa.

In genere, quando si ha davanti un problema complesso, per antica abitudine e per prassi intellettuale tipica, si ricorre ad un processo di scomposizione.
Una piccola glossa sul fatto che il metodo d’analisi, come è ovvio, influenzi l’oggetto.
Procedere in questo modo, infatti, significa implicitamente e inevitabilmente comporre un set complessivo in cui si fissano i poli ermeneutici iniziali: un soggetto, un oggetto, un metodo analitico, un codice, uno scopo conoscitivo che funge da guida.
(interessante ciò che dice De Mauro, filosofo del linguaggio, sulla questione dell’orizzonte di senso: http://w3.uniroma1.it/emiliogarroni/Lezione_DeMauro_Ass_Garroni.pdf.)

Ora, a questo proposito, se pare abbastanza pacifico tutto il resto, rimane da “esplodere”, come avrebbe fatto Leonardo, lo scopo conoscitivo, l’orizzonte di senso. Non tanto e non solamente per l’evidente motivo che spinge a conoscere, costitutivo della condizione umana, quanto per la sua collocazione nel campo del sapere codificato. La prima difficoltà, infatti, ricade nell’ambito del sapere universale e della disciplina specifica. Detto altrimenti: con quali sistemi di pensiero si aggredisce un problema del genere, con quali metodi e con quali intenzioni? Il richiamo a Garroni, come avrai potuto intuire, fornisce già una prima risposta: siamo nel dominio dell’estetica, vale a dire in quel particolare e circoscritto ambito del sapere che ha avviato da più di due secoli una riflessione filosofica intorno all’arte. Va da sé che il metodo prevalente sia quello filosofico, vale a dire la lenta e circospetta costruzione di concetti e di argomentazioni intorno al problema dichiarato. Senza farla troppo lunga, mentre in ambito europeo si predilige l’anamnesi storiografica e l’ossequio all’autorialità, nel milieu anglosassone si predilige l’approccio analitico, per problemi appunto. Non si tratta di sfumature di poco conto, né per il metodo né per gli esiti.
Lasciandolo sullo sfondo, potremmo prenderci la libertà di fare un po’ l’uno e un po’ l’altro. Quello che ci interessa qui è fare un po’ di ginnastica cerebrale.



Da orecchiante di filosofia, mi pare che il problema possa essere scomposto in almeno tre parti:

- un primo aspetto, centrale, ma non prevalente, è quello gnoseologico. Si può sollevare il dubbio sulla non prevalenza, ma ritengo che posta in quei termini è come se ci costringese a guardarla di sbieco e che tale prospettiva distorta non ci aiutasse a mettere a fuoco la questione. Apparentemente, l’interrogazione riguarderebbe un problema del tipo: cosa si conosce veramente? La realtà o una sua approssimazione, la sua mappa, direbbero i cognitivisti? Il quadro che vedono l’artista e lo spettatore è lo stesso quadro?
- un secondo aspetto, forse meno visibile ma alla fine più sostanziale, il vero fuoco del problema, è di tipo gnoseologico nel senso più proprio del termine: quali sono le condizioni della conoscenza, che cosa rende possibile che vi sia un artista, un quadro e uno spettatore?
- Un terzo aspetto, non meno importante, riguarda invece la questione spinosissima della temporalità. Costitutiva del nostro modo d’essere, la temporalità, quale limite dell’orizzonte, assume un particolare significato anche in relazione agli assunti metodologici, al modo di vedere, studiare, comprendere, trasmettere ogni opera, in particolare l’opera d’arte. Il tempo, detto altrimenti, nella nostra esperienza ha una direzione ben precisa[1], dal passato al futuro e ben lo sa chi fa di professione lo storico dell’arte. Dobbiamo chiederci se nell’arte è sempre vero… Chi viene dopo, artisticamente parlando, è migliore di chi lo ha preceduto? Meno stupidamente: lo scorrere del tempo, almeno visto nella sua longue durèe, ha un lato evolutivo, una dimensione di miglioramento? Oppure ogni immagine e ogni opera prodotta è depositata in una specie di magazzino della memoria dell’intera umanità al quale si attinge per produrre e vedere nuove(?) immagini?

Ti convince questa impostazione?

1. Il quadro che vedono l’artista e lo spettatore è lo stesso quadro?

Sul primo punto, è nota la querelle, vecchia come la filosofia stessa, della distinzione tra doxa ed episteme, tra opinione e conoscenza scientifica. Dalla sua stessa nascita, è una di quelle controversie filosofiche che arrovellano tutti i maggiori filosofi, i quali, in linea di massima, almeno concordano su un punto: scopo della filosofia è cercare la verità dietro l’apparenza (Platone) sino a giungere ad una certezza (Ego cogito, Descartes) circa il soggetto che conosce (res cogitans) in grado di ordinare il mondo di ciò che è conosciuto (res extensa). Questo dualismo spirito-materia o mente-realtà è la vera bestia nera di tutti i filosofi moderni. Sicchè si è spostato il focus dal fondamento riconosciuto in via esclusiva al soggetto conoscente ad un altro genere di fondamento: il metodo.
(La conoscenza scientifica, da Galileo in poi, non è che la moderna risposta al quesito di sempre: cosa conosciamo veramente? La falsificazione popperiana ne è l’esempio perfetto: una teoria è vera fino al momento in cui se ne trova una migliore, in grado di spiegare meglio e in modo più convincente l’esistenza di un certo fenomeno.)
Per concludere, in modo che non ti sembri ozioso questo richiamo alle dottrine, la filosofia classica ha distinto varie forme di conoscenza, riconducibili comunque a due fondamentali: quella fondata sui sensi (Eraclito e in parte Aristotele) e quella fondata sulla ragione (Parmenide e Platone). Attraverso la mediazione dei dibattiti medievali, la questione del rapporto tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale si ripropone in età moderna nel confronto tra due posizioni gnoseologiche contrapposte: quella del razionalismo e quella dell'empirismo. Il primo considera i concetti come "innati", cioè come patrimonio originario della mente, mentre il secondo fa derivare la conoscenza intellettuale dall'esperienza. Alla fine del Settecento, Kant tenta di conciliare questi due atteggiamenti sostenendo che nel processo conoscitivo cooperano strutture innate della mente e dati empirici.
Proprio quest’ultimo punto mi pare di particolare interesse per la nostra questione.
Riproponiamo il quesito: il quadro che vedono l’artista e lo spettatore è lo stesso quadro?
Se accettiamo l’impostazione kantiana, dovremmo dedurre che la risposta debba essere sostanzialmente positiva con l’avvertenza della variabilità dei dati empirici, visto che sulle strutture innate non ci dovrebbero essere dubbi. Il dato di imponderabilità del fatto empirico, tuttavia, rimane. Tornando al nostro esempio, artista e spettatore certamente vedono il quadro ma forse non è lo stesso quadro. L’artista, nel lungo processo creativo che lo ha portato alla realizzazione finale, lo ha “pensato, visto, realizzato” in una certa condizione della mente e del corpo suoi propri, impossibili da ripetere esattamente, così come per le condizioni di luce e di percezione. Lo spettatore, dal canto suo, vede il quadro secondo i suoi costrutti interni, il suo gusto, la sua competenza, i suoi mutevoli stati d’animo.
Gli stati interni dei due soggetti, però, direbbe Wittgenstein, con questa impostazione sarebbero incomunicanti.[2]
Ma egli, criticando radicalmente l’idea che i due soggetti debbano essere presi come due mondi chiusi che poi entrano in comunicazione, ci suggerisce che in fondo in fondo siamo costitutivamente sempre in “azione”, parliamo e costruiamo una rete semantica contemporaneamente, ci mettiamo d’accordo insomma.
Si può accettare con maggiore o minore convinzione questa impostazione di semantica costruttivistica, ma non mi pare che ci possano essere molte alternative. O accettiamo l’idea che abbiamo a che fare con dei “giochi linguistici”, proprio come con gli scacchi, per cui il gioco si sviluppa in molti modi possibili pur avendo un numero limitato di regole condivise, oppure ritorniamo all’idea insuperabile che risulterebbe impossibile condividere gli stati interni di ciascuno, confinati ognuno nel proprio spazio interiore inattingibile. In definitiva, esistono molteplici forme di linguaggio, e queste forme non possono nemmeno essere quantificate e definite una volta per tutte, perché continuamente si creano e si distruggono nuovi linguaggi; sfumature e giochi linguistici cambiano continuamente e si evolvono, non solo in sé ma anche in relazione al contesto antropologico in cui si sviluppano.
Rimane da charire, peraltro, il particolare contesto antropologico della fruizione artistica. Nel linguaggio comune, il significato corriponde al suo uso in un determinato contesto. Nell’arte funziona allo stesso modo?
L’artista, in genere, si pone sempre al limite del linguaggio [3], in cerca di nuove forme espressive, per ampliare e scavare nel già noto, in nome di un impulso comunicativo e conoscitivo sottratto, in tutto o in parte, alla prevalente dimensione dell’utilità.
A questa domanda, Wittgenstein risponderebbe di sì: l’arte è uno dei tanti giochi linguistici. Questione compresa a perfezione, ad esempio, da Bruce Nauman. (http://www.teknemedia.net/magazine/dettail.html?mId=2577) e ancor prima da Duchamp, da te molto ammirato, se non ricordo male. (Vedi http://www3.unibo.it/parol/articles/seminario_principe7.htm).
Potremmo aggiungere, anche, che ogni artista, preso in sé stesso, è un gioco linguistico a sé stante, con sue proprie regole e con codici propri. Inoltre, ed è il motivo per cui attribuiamo grande importanza alle performances artistiche, egli costruisce nuovi giochi in cui spesso lo scopo del gioco è la possibilità di darsi (a) nuovi giochi.

2. Le condizioni della conoscenza

“La filosofia è conoscenza, acquisita con retto ragionamento, degli effetti o fenomeni
partendo dai concetti delle loro cause o generazioni e ancora delle generazioni, che possono
aver avuto luogo, partendo dalla conoscenza degli effetti” (Hobbes).

“Ogni parte della materia può essere concepita come un giardino pieno di piante o come
uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo delle piante, ciascun membro dell'animale,
ciascuna goccia dei suoi umori è ancora un giardino o uno stagno” (Leibniz)


In questo frangente, purtroppo, ci possono aiutare solo i pezzi grossi del pensiero e senza voler fare troppi svolazzi sulla storia delle idee, tocca fare i conti con Immanuel Kant[4].
Il nostro distingue nettamente tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. La prima è dovuta alla passività o ricettività del soggetto che riceve appunto i dati sensibili: essi ci fanno vedere le cose così come ci appaiono, cioè ci fa conoscere i fenomeni, le cose come si manifestano a noi e non come sono in sé. La seconda è una facoltà del soggetto che ci permette di cogliere le cose così come sono, nel loro vero essere, che può essere colto solo dal pensiero, e per questo motivo Kant chiama le cose come vengono colte dal pensiero noumeni (dal greco noein, "pensare"). Concetti dell'intelletto sono ad esempio quelli di "possibilità", di "necessità" e simili, i quali ovviamente non possono derivare dai sensi. Gli errori della metafisica tradizionale derivano dal "gioco illusionistico" di confondere conoscenza intellettuale e conoscenza sensibile. E, cosa ancor più rilevante, noi conosciamo solo i fenomeni, come abbiamo detto, non i noumeni, le cose in sé.
La sua rivoluzione copernicana, come la chiamerà, è tutta qui: ogni conoscenza sensibile avviene nello spazio e nel tempo: lo spazio e il tempo non sono proprietà caratteristiche delle cose, realtà ontologiche, né semplici rapporti fra i corpi.
Essi sono invece le forme della sensibilità, cioè i modi con cui il soggetto coglie sensibilmente le cose.

La sua ‘Critica della Ragion Pura’ (1781) ha per oggetto la cosiddetta ‘Estetica Trascendentale’, che studia le forme a priori della sensibilità , intesa come facoltà degli uomini di essere modificati dagli oggetti esterni . Infatti, ogni conoscenza comincia con l' esperienza, ovvero con ‘l'affezione’ dei nostri sensi da parte degli oggetti esterni attraverso una intuizione (termine con il quale Kant indica qualsiasi rappresentazione immediata, cioè non discorsiva). Ma se l'esperienza fornisce a posteriori il materiale della conoscenza, sono invece determinate a priori le forme, cioè le modalità del soggetto che condizionano e rendono possibili la ricezione del materiale. L' intuizione conterrà quindi in sé due aspetti : da un lato, il contenuto materiale della sensazione, dall' altro, la struttura formale che condiziona la possibilità del ricevere. Questo aspetto formale dell' intuizione è l' intuizione pura; mentre la congiunzione di un' intuizione pura con la sensazione materiale costituisce l' intuizione empirica.
Kant, si diceva, individua nello spazio e nel tempo le forme a priori della sensibilità : lo spazio è la forma del senso esterno, il tempo quella del senso interno. Spazio e tempo non sono dunque né rappresentazioni astratte dall' esperienza, né concetti costruiti discorsivamente dall' intelletto, ma intuizioni pure, le quali costituiscono le condizioni a priori di qualsiasi rappresentazione sensibile e quindi sono precedenti ad ogni esperienza possibile . In altri termini, tutto ciò che è dato nell' intuizione, viene necessariamente rappresentato nello spazio e nel tempo. A causa di questo processo di spazializzazione e di temporalizzazione noi non conosciamo gli oggetti come essi sono in sé , ma soltanto come ci appaiono, ovvero come fenomeni. Più precisamente, lo spazio è l' intuizione pura dei fenomeni del senso esterno, il tempo è l' intuizione pura dei fenomeni del senso interno . Ma poiché i fenomeni del senso esterno, in quanto dati al soggetto, sono anche fenomeni del senso interno e vengono rappresentati nell' elemento temporale, il tempo viene ad essere l' intuizione pura di tutti i fenomeni, di quelli del senso interno direttamente, di quelli del senso esterno (dati direttamente nello spazio) indirettamente. Lo spazio e il tempo, inoltre, stanno a fondamento della matematica, in quanto consentono la costruzione intuitiva delle conoscenze sintetiche dell' aritmetica e della geometria. Infatti, l' intuizione pura della continuità temporale sta alla base dell' aritmetica, rendendo possibile la successione numerica, cioè l' aggiunta successiva di una nuova unità alla quantità numerica già data. Analogamente l' intuizione della contiguità spaziale fonda la possibilità della costruzione delle figure geometriche : la linea non è che il movimento ideale di un punto nello spazio, così come il piano è dato dal movimento di una linea e il volume dei corpi dal movimento di un piano .
E’ stato faticoso, lo ammetto; Kant è un pensatore pedante ma scrupoloso all’inverosimile e ci ha disegnato un sistema conoscitivo che solo in parte è stato messo attualmente in discussione.
Tornando a noi, direi che abbiamo fatto un passo avanti nel comprendere che per ogni rappresentazione è necessario porsi il problema, in termini kantiani, delle condizioni trascendentali della conoscibilità.
Questo ci porta però al problema della rappresentabilità di queste condizioni di conoscenza. Problema, direi, insolubile se lo affrontassimo in termini di risalita alle cause: come diceva Aristotele, ad un certo punto dobbiamo fermarci nel ritornare alla genesi degli eventi; intendere lo spazio-tempo come condizione della conoscenza ci impone di fermarci qui. Ma su questo forse è il caso di tornarci fra un po’.
Prima varrebbe la pena, secondo me, dar conto di un problema molto serio, che scaturisce dalla dicotomizzazione che si origina da questa impostazione kantiana e da quella che viene definita da Benjamin e poi da Agamben “perdita dell’esperienza”.[5] Detto altrimenti, si tratta di interrogarsi (nientemeno!) sullo statuto conoscitivo dell’arte e sul tipo di conoscenza apportato dalla fruizione di un’opera d’arte, come andiamo investigando a partire dal tuo quesito. Sembra un percorso da scatole cinesi, lo so. Cercavamo le condizioni della conoscenza e abbiamo visto che ad un certo punto occorre fermarsi e andare a vedere “dentro la scatola” per verificare se il metodo conoscitivo è unico e solo per ogni oggetto di conoscenza o, com’è probabile, dipende dall’oggetto, soprattutto in ambito estetico.
Ci si pone cioè la questione, ridotta ai suoi termini essenziali, se la produzione artistica ci consegna un “oggetto” diverso dal solito, cui si è aggiunto un che di bello e di pregevole, sottraendolo all’uso comune e collocandolo in una sfera di autenticità ed unicità o dobbiamo prendere atto, invece, che il tipo di esperienza che viviamo nella modernità [nell’epoca della riproducibilità tecnica] abbia cancellato, come direbbe Benjamin, ogni “aura” di autentiticità. In più, aggiunge, non dobbiamo dolercene. Quel che è mutato è lo statuto della nostra esperienza, non solo lo status dell’opera d’arte. Siamo in un’epoca, conclude il nostro, in cui l’esperienza non conduce alla conoscenza; l’interruzione di questo circuito virtuoso, rende problematico ogni approccio alla conoscenza, all’arte e ad ogni sua possibile fruizione.
In linea generale, infatti, la soggettività trascendentale (conoscitiva e morale) è dal lato intellettuale e oggettivo; la sensibilità dal lato empirico e soggettivo. Sensazione e sentimento non contribuiscono in nulla alla costituzione della soggettività trascendentale e ‘vera’ dell’uomo e perciò non contribuiscono alla reale costituzione della sua esperienza.
Il mondo della soggettività - quale viene configurato dalla nascita della scienza moderna - è dunque accolto da Kant, al livello puro e trascendentale, solo nei suoi aspetti conoscitivi e morali oggettivamente certificabili da scienza newtoniana e morale cristiana, ma è lasciato come residuo empirico e impuro nei suoi aspetti di sensazione e sentimento.
Ma psicologia, antropologia, natura come totalità, finalità, sentimentalità rimangono come residui empirici, impuri, resistenti ad ogni concettualizzazione scientifica e moralistica, come il gusto e la bellezza - collocatasi, dopo l’affermarsi della mentalità della rivoluzione scientifica, tra un “non so che” e un “mi piace” puramente empirico-sentimentale. Il tentativo di appropriazione di queste sfere eccedenti e debordanti trova in questo dualismo i propri limiti massimi, il territorio d’esperienza più ostile a una riduzione quantitativo-meccanicistica o etico-morale (il Bello non è il Vero e non è il Bene). Soggettività, sentimentalità, finalità in che misura possono produrre universalità e costituire reale esperienza?
Certo, nello sviluppo successivo dell’Estetica, la bellezza, da Kant fondata sul bello naturale, è stata ridotta a bellezza artistica e così essa, come fondamento dell’arte, ha trovato la sua definitiva formulazione nella “dissoluzione” dell’arte posta da Hegel: ma questa è appunto la ‘visione’ moderna della bellezza: come artistica e come prodotto creato e controllato dal fare ‘progressivo’ dell’uomo. (Vedi http://www.filosofico.net/esteticahegelll.htm)

Abbandonato ogni ingenuo realismo e ogni idea di rispecchiamento arte/natura, il terreno di analisi dell’arte si struttura intorno ai codici culturali agiti e condivisi o avversati (come il rapporto tradizione-avanguardia ci insegna) dall’artista, dal mercato, dallo spettatore anonimo, dal critico/organizzatore/creatore di fenomeni artistici. Tutti questi soggetti e i loro mutevoli rapporti originano e strutturano il nuovo campo dell’arte, i suoi sviluppi (?), le sue spesso incomprensibili diatribe interne, a perfetta smentita dell’idea hegeliana del ruolo di elevamento verso l’Assoluto dello Spirito da parte dell’arte.
Che quadro vedono, allora, l’artista e lo spettatore?
E’ riprovevole rispondere ad una domanda con un’altra domanda, ma il percorso compiuto non mi pare disprezzabile né del tutto inutile. In genere, come dice Wittgenstein di sé stesso, il ruolo del filosofo è quello di fare differenze. Che è quello che abbiamo cercato di fare fino a qui. Rimane da capire a quali condizioni e in quali modalità possiamo rappresentarci l’idea di tempo, inevitabile problema estetico e filosofico per chi si approssima alla definizione della rappresentazione artistica e delle sue peculiari scelte espressive.

3. Come pensare il tempo della rappresentazione?

Il tempo dell’artista, della sua creazione interiore e della sua realizzazione esteriore, può essere il tempo dello spettatore, del critico, del suo accoglimento e della sua decodificazione?
Per Paul Klee, ogni gesto che traccia anche un semplicissimo segno spaziale è al contempo, inesorabilmente, un evento temporale, ci mette del tempo a depositarsi sulla tela; così come del tempo ci vuole perché l’osservatore percepisca quello stesso segno.
Le immagini, dunque, hanno un tempo, e fanno tempo. Ma come va inteso, propriamente, questo tempo? Dovremmo forse, semplicemente, accostare alla topologia una cronologia? E non lo abbiamo, in fondo, fatto da sempre, proprio con la storia dell’arte?
Comprendo davvero, e definitivamente, un’immagine quando la riconduco al suo contesto storico (sociale, politico, economico, culturale tout court), cioè quando ne colgo il significato che essa ha assunto nel suo tempo. Sfortunatamente per questo modello interpretativo, lo storico proprio in quanto tale appartiene ad altro tempo rispetto a quello dell’immagine, che gli rimane perciò sempre prospetticamente distante; e, altrettanto inevitabilmente, l’immagine sopravvive al proprio tempo e finisce in tempi diversi, successivi, condizionandoli e venendone condizionata.
L’immagine è, dunque, costitutivamente anacronistica. Come dar conto, allora, di questo intrico di tempi che si accavallano nell’immagine, contraddicendosi e complicandosi in essa e grazie ad essa? Possono darne conto una storiografia ed una critica che non tengono conto di tutti questi discronismi o anacronismi, alle prese spesso con il palesarsi spesso incoerente, paradossale e choccante di alcune immagini? Oppure invece è necessario tener conto che occorre guardare negli occhi l’anacronismo dell’immagine e la sua perturbante realtà inclassificabile?
Penso di aver esaurito le mie risorse. E anche la tua pazienza, immagino.

Un caro saluto
AAM

NOTE

[1] Vedi questo interessante intervento di un grande scienziato russo, Prigogine, che a lungo si è interrogato sui problemi dell’irreversibilità del tempo, dell’evoluzione e del rapporto tra scienza e filosofia. http://xoomer.alice.it/llpassal/prigogine/prigogine16.htm

[2] “Il cosiddetto argomento contro il linguaggio privato è stato concepito per mostrare che sarebbe impossibile sviluppare un linguaggio in questa condizione originaria di isolamento completo che viene ipotizzato da Descartes e da Russell. Ovviamente, ci si può domandare se sia veramente un argomento valido, ma questa è una questione estremamente complessa. Invece, questa è la sua valenza: è un’argomentazione sviluppata in opposizione a quella lunga tradizione che imposta la questione della percezione e del mondo esterno a partire da una posizione minimalista, tale per cui noi stessi siamo soli con le nostre sensazioni e dobbiamo costruire il mondo esterno partendo soltanto da queste. L'argomento del linguaggio privato è concepito per dimostrare che questo non è un modo ragionevole di concepire la nostra posizione originaria. Prendiamo l'esempio del dolore. Wittgenstein pensa che ciò da cui si parte è la situazione sociale, la situazione familiare, nella quale non si pone la questione del dolore altrui: tuo figlio grida e tu reagisci immediatamente, non c'è alcuna sofisticata questione intellettuale dietro. Ed il bambino, secondo Wittgenstein, apprende nello stesso modo, apprende contemporaneamente ciò che riguarda lui e ciò che concerne gli altri. L'argomento contro il linguaggio privato è concepito per mostrare che il modo cartesiano di considerare tutto ciò è sbagliato perché separa il linguaggio delle sensazioni dalla vita reale. Wittgenstein dice, infatti, che, in tal modo, si mette "il carro davanti ai buoi".
Tratto da:
http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=44
(Vedi anche http://www.treccani.it/site/Scuola/nellascuola/area_scienze_umane/archivio/wittgenstein/fortuna.htm)


[3] Linguaggio, qui, vale come espressione in senso lato, anche come opera, testo, quadro, ecc.
[4] Se hai voglia di divertirti, v. http://it.wikipedia.org/wiki/Immanuel_Kant.
[5]Vedi la scheda http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=Benjamin.html


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